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Le Beatitudini, il più grande atto di speranza cristiano
Ermes Ronchi giovedì 26 gennaio 2017
IV Domenica
Tempo ordinario – Anno A
In quel tempo, vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli».
Davanti al Vangelo delle Beatitudini provo ogni volta la paura di rovinarlo con i miei tentativi di commento, perché so di non averlo ancora capito. Perché dopo anni di ascolto e di lotta, questa parola continua a stupirmi e a sfuggirmi.
Gandhi diceva che queste sono «le parole più alte del pensiero umano». Ti fanno pensoso e disarmato, ma riaccendono la nostalgia prepotente di un mondo fatto di bontà, di sincerità, di giustizia, senza violenza e senza menzogna, un tutt'altro modo di essere uomini. Le Beatitudini hanno, in qualche modo, conquistato la nostra fiducia, le sentiamo difficili eppure suonano amiche. Amiche perché non stabiliscono nuovi comandamenti, ma propongono la bella notizia che Dio regala vita a chi produce amore, che se uno si fa carico della felicità di qualcuno il Padre si fa carico della sua felicità.
La prima cosa che mi colpisce è la parola: Beati voi. Dio si allea con la gioia degli uomini, se ne prende cura. Il Vangelo mi assicura che il senso della vita è, nel suo intimo, nel suo nucleo profondo, ricerca di felicità. Che questa ricerca è nel sogno di Dio, e che Gesù è venuto a portare una risposta. Una proposta che, come al solito, è inattesa, controcorrente, che srotola nove sentieri che lasciano senza fiato: felici i poveri, gli ostinati a proporsi giustizia, i costruttori di pace, quelli che hanno il cuore dolce e occhi bambini, i non violenti, quelli che sono coraggiosi perché inermi. Sono loro la sola forza invincibile.
Le beatitudini sono il più grande atto di speranza del cristiano. Il mondo non è e non sarà, né oggi né domani, sotto la legge del più ricco e del più forte. Il mondo appartiene a chi lo rende migliore.
Per capire qualcosa in più del significato della parola beati osservo anche come essa ricorra già nel primo dei 150 salmi, quello delle due vie, anzi sia la parola che apre l'intero salterio: «Beato l'uomo che non resta nella via dei peccatori, che cammina sulla via giusta». E ancora nel salmo dei pellegrinaggi: «Beato l'uomo che ha la strada nel cuore» (Sl 84,6).
Dire beati è come dire: «In piedi voi che piangete; avanti, in cammino, Dio cammina con voi, asciuga lacrime, fascia il cuore, apre sentieri». Dio conosce solo uomini in cammino.
Beati: non arrendetevi, voi i poveri, i vostri diritti non sono diritti poveri. Il mondo non sarà reso migliore da coloro che accumulano più denaro. I potenti sono come vasi pieni, non hanno spazio per altro. A loro basta prolungare il presente, non hanno sentieri nel cuore. Se accogli le Beatitudini la loro logica ti cambia il cuore, sulla misura di quello di Dio; te lo guariscono perché tu possa così prenderti cura bene del mondo.
(Letture: Sofonía 2,3; 3,12-13; Salmo 145; 1 Corinzi 1,26-31; Matteo 5,1-12).
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La storia dell'umanità inizia in Africa e ...... dai piedi - Irene Lorandi
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“Misericordia io voglio non sacrificio (Mt 12,7)”
fra Alberto Maggi osm
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Ascoltare Dio al proprio pozzo
http://sperarepertutti.typepad.com/sperare_per_tutti/2016/06/ascoltare-dio-al-proprio-pozzo.html
ANGELO CASATI intervistato da Paolo Rodari, "Repubblica", 21 giugno 2016
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Il divino e i volti - di Angelo Casati in “Esodo” n. 4 del dicembre 2015
http://www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt201605/160504casati.pdf
Il divino e i volti. Ringrazio per il congiungimento - per la “e” del congiungimento tra il divino e i volti -. Ho sofferto a lungo, troppo a lungo, per la schizofrenia di un divino che mi veniva raccontato come prendere distanza dall’umano, e la sete del volto di Dio raccontata come purificazione dalla sete del volto delle donne e degli uomini del mio tempo, e questo nei giorni in cui mi andavo sempre più innamorando. Innamorando dei volti. Veniva sera e scrivevo:
I volti degli amici
sono come Terra Promessa:
pochi metri
di zolla nera e feconda
che conosco palmo a palmo,
come il ramificarsi
delle vene su una mano.
I volti dei miei amici
sono come lo specchio del tempo.
Li interrogo in silenzio la sera:
negli occhi s’è fissata
e ancora vive, tutta,
l’avventura di un giorno:
ancora inseguono
scomode immagini,
come mozziconi
che nessuno osa spegnere
in ceneri di indifferenza.
Dilaga nella piega
degli occhi
la lotta dei disperati,
l’amore dei folli,
questo nostro sperare
contro ogni speranza.
Sui volti dei miei amici
ripercorro ogni giorno
il sentiero inquieto
delle nostre domande
senza risposta.
Unica certezza
- tra sabbie e deserti
di scelte provvisorie -
il Cristo Presenza e Assenza,
vicino come la carne
di uno sposo,
e atteso nella notte
con fiaccole
che faticano al vento
quasi fossero
sul punto di morire.
E noi, amici?
Noi chiamati
a rischiare la notte,
a decidere al buio
- quando fioca è la luce -
per un cammino o per l’altro.
Perché non parli, o Signore?
Nostra nuova condizione
è non sapere e sperare
contro ogni speranza.
Volti dei miei amici
volti senza presunzione,
immagine
della speranza dei folli.
Volti dei miei amici,
la terra del domani.
La frequentazione della Parola creava congiungimento di divino e di volti. Mi affascinava e mi intrigava l’immagine di un Dio che si lasciava prendere da stupore per ciò che gli era uscito dalle mani: “E vide che era cosa buona, bella”. Lui al culmine dello stupore, quando gli riuscì di creare un uomo e una donna: “E vide che era cosa molto buona, molto bella”. Parte di lui abitava quel volto di donna, quel volto di uomo, li aveva creati a sua immagine, secondo la sua somiglianza. E la parola immagine, nella lingua antica, non racconta una fotografia, ma una custodia di presenza, della presenza del divino nel volto.
A volte l’affresco parlava nei suoi colori. A volte purtroppo - e furono secoli! - l’affresco veniva dimenticato o appesantito di sovraccarico. Ci furono giorni in cui scordammo l’affresco delle origini, che parlava di volti abitati. Nuovi maestri, cosiddetti dello spirito, mi parlavano di un Dio di cui innamorarmi, da contemplare, e di donne e uomini da relativizzare, dai quali distogliere gli occhi.
Ci furono anche giorni in cui in Seminario - e rabbrividivo - mi portavano come esempio di virtù S. Luigi Gonzaga, per il fatto che non guardasse in volto, perché donna, sua madre. A me sembrava pura schizofrenia. Come se amare la vita, fosse togliere qualcosa a Dio. Un disamoramento chiamato virtù.
Pensavo all’incarnazione. Non era il superamento della schizofrenia, tra Dio e uomo? Dio si è fatto uomo. Dio lo trovi dove? Dove è andato a nascondersi? Nella carne, nella storia degli umani. Non è contro la vita, è nella vita. Oggi, alla domanda dov’è andato a nascondersi Dio, mi si accende nel cuore l’indicazione di una preferenza che urge come una segnalazione. Da non scordare. Pena il perdere l’appuntamento. Risuona già insistente nel primo Testamento dove Dio in pagine e pagine viene evocato come il difensore dell’orfano, della vedova, dello straniero, di coloro che portano scritta nella pelle un’assenza che grida, assenza di difesa, di affetti, di terra. Dio congiunto a loro.
Dove si è nascosto Dio? Al cuore mi ritorna un racconto, quello biblico del roveto che narra di Mosè che nei pressi di un monte, al di là del deserto, vide un roveto ardere e non consumarsi. Mosè si avvicinò, ma Dio gli parlò dal roveto chiedendogli di sostare: “Non avvicinarti oltre! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo, sul quale tu stai, è suolo santo!”. Ci dovrebbe dunque condurre il sospetto che il luogo che calpestiamo sia sacro, mescola di umano e divino. Dove si è nascosto Dio?
Un midrash della tradizione rabbinica cerca di spiegare l’immagine del roveto che arde e non si consuma. Ecco come la interpreta: “Il Santo, benedetto sia, disse a Mosè: ‘Non senti che io sono nel dolore proprio come Israele è nel dolore? Guarda da che luogo ti parlo: dalle spine! Se così si potesse dire, io condivido il dolore di Israele’. Perciò si legge anche (Is 63,9): ‘In tutte le loro angustie Egli fu afflitto’” (Esodo Rabbà 2,5).
Dov’è il divino, dove si è nascosto Dio? Fedele alla sua tradizione, con la sua vita ancor prima che con le sue parole, Gesù ha insegnato dove Dio oggi si nasconde, dove lui stesso oggi è presente: “Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi”. Allora i giusti gli risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?”. E il re risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25,34-40).
Sembra di capire il perché della preferenza di Dio e, di conseguenza, il perché della scelta preferenziale per i poveri - per i poveri di ogni categoria - a cui siamo chiamati urgentemente dalla Parola di Dio. Una scelta cui spesso ci chiama papa Francesco. Perché la preferenza? Non certo perché Dio faccia preferenza di persone, ma perché di questi suoi figli vede i volti violati, sconsacrati, depauperati della sua immagine divina. Altri hanno mezzi e stratagemmi con cui difendersi, hanno accoliti e solidali che li difendono, questi no. Li difende Dio, li difendono i veri credenti in Dio. E quando succede che a difenderli siano gli atei, Dio si sente difeso dagli atei. E quando succede che non li difendano i credenti, Dio si sente abbandonato e sconfessato dai credenti.
Paradossi della storia!
C’è una conversione da operare. Una conversione di sguardi e di cuore.
A chi normalmente vanno i nostri sguardi? Chi ha un posto - e dovrebbe essere posto di preferenza - nei nostri sguardi? E nelle nostre assemblee pastorali? E nei nostri programmi pastorali? Alcuni di noi forse ricordano con commozione come la Didascalia degli apostoli (III secolo) prescrivesse al cap. 12 che, ad accogliere nell’assemblea i poveri, uomini o donne che fossero, doveva essere il vescovo stesso e non i diaconi, e che doveva essere ancora il vescovo a procurare loro un posto e che, se questo non si fosse trovato, doveva cedere il suo e sedere a terra ai loro piedi. “È questo un sogno? - si chiedeva anni fa il teologo don Pino Ruggieri -, o sono piuttosto un tradimento dell’eucaristia quelle celebrazioni che ripropongono, nella disposizione dei partecipanti e nello stile della partecipazione, le gerarchie mondane, ma anche soltanto l’educato stare ognuno per conto suo?”.
Non è forse vero che riconsacriamo il pane del Signore ogni volta che ci lasciamo trascinare dal gesto, l’ultimo che il Signore ci ha lasciato come comando, in quella sua ultima cena, il gesto del servo che si china a lavare i piedi stanchi? E dunque ricondotti anche noi ai piedi, impolverati di fatiche, delle donne e degli uomini con cui camminiamo, nel desiderio di sollevarli dalle stanchezze e di rialzarli a dignità?
Uno sguardo di preferenza ai loro volti. Uno sguardo segnato dalla tenerezza. Perché non basta vedere. Anche il sacerdote e il levita della parabola videro, ma passarono oltre. A differenza del samaritano che vide e sentì rivoluzionarsi dentro le viscere per la compassione. C’è modo e modo di vedere le sofferenze dell’umanità, e c’è modo e modo di parlarne, nelle nostre omelie e nei nostri incontri. Posso vedere e posso parlare senza “toccare”, senza “lasciarmi toccare” da ciò che vedo, da ciò di cui si sta parlando. Posso guardare e parlare a occhi asciutti. O mi si possono inumidire gli occhi.
C’è un modo distaccato, professionale, asettico di guardare e di parlare. Si può guardarlo come un caso da risolvere, come un caso che, se gli dai attenzione, ti ruba tempo, un caso che in qualche modo ti crea disagio o ti contagia. Ci sono anche oggi categorie che noi sospettiamo di contagio, sbrigativamente li chiamiamo “irregolari”, portano ferite devastanti nell’anima, esclusioni che sono morti civili. Forse il sacerdote e il levita avevano una purezza da salvaguardare, chissà, in vista di quali celebrazioni nel tempio!
Avevano una sacra giustificazione per “girarsi dall’altra parte”. Quante volte non ci si ferma, invocando una non opportunità. Una non opportunità secondo le convenzioni codificate. Ma un’opportunità secondo il vangelo. Il 10 luglio di quest’anno a Santa Cruz della Sierra, in Bolivia, parlando di volti ai movimenti popolari, Francesco, il vescovo di Roma, diceva: “Quando guardiamo il volto di quelli che soffrono, il volto del contadino minacciato, del lavoratore escluso, dell’indigeno oppresso, della famiglia senza casa, del migrante perseguitato, del giovane disoccupato, del bambino sfruttato, della madre che ha perso il figlio in una sparatoria perché il quartiere è stato preso dal traffico di droga, del padre che ha perso la figlia perché è stata sottoposta alla schiavitù; quando ricordiamo quei “volti e nomi” ci si stringono le viscere di fronte a tanto dolore e ci commuoviamo... Perché “abbiamo visto e udito” non la fredda statistica, ma le ferite dell’umanità sofferente, le nostre ferite, la nostra carne. Questo è molto diverso dalla teorizzazione astratta o dall’indignazione elegante. Questo ci tocca, ci commuove e cerchiamo l’altro per muoverci insieme. Questa emozione fatta azione comunitaria non si comprende unicamente con la ragione: ha un “più” di senso che solo la gente capisce e che dà la propria particolare mistica ai veri movimenti popolari”.
Scoprire il divino nei volti significa in qualche misura anche perdersi. Perdersi a contemplare – sia pure attraverso un’esile fessura –. Perdersi a contemplare l’oltre che abita i volti. Qualcosa che eccede, qualcosa che fa la dignità di quel volto, che a volte è stato piegato in un nome, in un genere, in un’età, in una categoria, in una professione, in una cultura, in una religione. Se ti perdi con gli occhi nell’aldilà che lo abita, sfiori il divino. Un oltre che diventa per te nutrimento. Spesso mi fermo a pensare e anche a ringraziare per i volti. Sono stati la mia ricchezza, il mio nutrimento.
Quello che io sono in gran parte lo devo a loro, all’oltre che li ha abitati. Se ti perdi nei loro volti, i crocifissi della storia, che nel migliore dei casi vengono considerati come oggetto di cui prendersi cura, vengono strappati alle loro periferie per ritrovare dignità: da oggetto diventano soggetto, protagonisti, portatori di dignità e di ricchezza, creature che possono dare, possono ospitare, possono insegnare. Come non ricordare la donna del vangelo che Gesù, alla fine della sua vita pubblica, invita a guardare? Quasi ci dicesse: “Guardate lei, imparate da lei”. Intrigante pensare che, alla fine del vangelo, Gesù lasci in eredità un volto. Di una donna, vedova e povera. Nella sua povertà ha lasciato scivolare due monetine nel tesoro del tempio, era quanto aveva per vivere. E Gesù la mette in cattedra, mentre spodesta altri dalle loro solenni, altezzose cattedre; ha appena finito di dire: “Guardatevi dagli scribi, che amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze, avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti. Divorano le case delle vedove e pregano a lungo per farsi vedere. Essi riceveranno una condanna più severa” (Mc 12,38- 40).
Dal vangelo viene una consegna, quella di ricondurre dalla terra di esilio in cui sono stati deportati, dalle periferie della società in cui sono stati emarginati, dai silenzi in cui sono stati zittiti, gli ultimi della terra. Gli ultimi che per il vangelo sono i primi: qui sta la rivoluzione del vangelo, negata o incompiuta. Gli ultimi che Gesù difese a costo di morte, restituendo loro quella dignità di cui spesso vengono illegalmente espropriati. Gli ultimi, i dimenticati, inghiottiti nelle nebbie della nostra dilagante indifferenza, nelle nostre agghiaccianti leggi di esclusione, esclusione illegale in umanità. Gli ultimi, una categoria dell’umanità, che dovrebbe aver un posto di privilegio, terra sacra, nella vita di ogni vero discepolo del vangelo. Potremmo azzardare domande: attingiamo alla sapienza degli ultimi? Li mettiamo in cattedra nei nostri consigli pastorali, nelle nostre assemblee ecclesiali? A chi diamo la voce nei nostri grandi convegni, nelle imponenti faraoniche manifestazioni ecclesiali? Troviamo presenti i loro volti? Ci prende timore che in assenza dei loro volti, in una misura non indifferente, si nasconda anche Dio?
Una rivoluzione? Incompiuta o nemmeno iniziata? Se ne intravedono inizi - e nemmeno tanto timidi, in alto, che più alto non si può - quasi un segnale per tutta la chiesa e non solo per la chiesa. Forse queste mie parole - le mie troppe parole - possono efficacemente essere racchiuse in una sola immagine, quella dei centocinquanta clochard in visita ai Musei vaticani e alla Cappella Sistina il 26 marzo scorso, su invito di papa Francesco. Passi offrire la cena! Ma offrire una visita ai musei e alla cappella Sistina, con guida di esperti? È gesto che rivendica dignità di occhi e di intelligenza per coloro che noi chiamiamo “barboni”. Dignità, intelligenza, capacità di godere della bellezza, un volto! A sorpresa il papa si affacciò nel mezzo della loro visita, strinse le mani a ciascuno, disse loro: “Benvenuti. Questa è la casa di tutti, è casa vostra. Le porte sono sempre aperte per tutti”. I suoi occhi! I suoi occhi mentre li guarda. Li vedi come perduti in un’icona, quasi stessero sulla soglia. Sulla soglia del divino. Invito a una sosta.
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«L’indispensabile impegno dei laici nella vita pubblica»
Papa Francesco
Papa Francesco ha scritto una Lettera al card. Marc Ouellet, presidente della Pontificia Commissione per l'America Latina, frutto del suo incontro il 4 marzo scorso con i partecipanti alla Plenaria dell’organismo che si è svolta sul tema «L’indispensabile impegno dei laici nella vita pubblica» dei Paesi latinoamericani. Di seguito pubblichiamo il testo integrale della Lettera del Papa:
A Sua Eminenza il Cardinale Marc Armand Ouellet, P.S.S. Presidente della Pontificia Commissione per l’America Latina Eminenza,
Al termine dell’incontro della Commissione per l’America Latina e i Caraibi ho avuto l’opportunità d’incontrare tutti i partecipanti dell’assemblea, nella quale si sono scambiati idee e impressioni sulla partecipazione pubblica del laicato alla vita dei nostri popoli.
Vorrei riportare quanto è stato condiviso in quell’incontro e proseguire qui la riflessione vissuta in quei giorni, affinché lo spirito di discernimento e di riflessione “non cada nel vuoto”; affinché ci aiuti e continui a spronare a servire meglio il Santo Popolo fedele di Dio.
È proprio da questa immagine che mi piacerebbe partire per la nostra riflessione sull’attività pubblica dei laici nel nostro contesto latinoamericano. Evocare il Santo Popolo fedele di Dio è evocare l’orizzonte al quale siamo invitati a guardare e dal quale riflettere. È al Santo Popolo fedele di Dio che come pastori siamo continuamente invitati a guardare, proteggere, accompagnare, sostenere e servire. Un padre non concepisce se stesso senza i suoi figli. Può essere un ottimo lavoratore, professionista, marito, amico, ma ciò che lo fa padre ha un volto: sono i suoi figli. Lo stesso succede a noi, siamo pastori. Un pastore non si concepisce senza un gregge, che è chiamato a servire. Il pastore è pastore di un popolo, e il popolo lo si serve dal di dentro. Molte volte si va avanti aprendo la strada, altre si torna sui propri passi perché nessuno rimanga indietro, e non poche volte si sta nel mezzo per sentire bene il palpitare della gente.
Guardare al Santo Popolo fedele di Dio e sentirci parte integrale dello stesso ci posiziona nella vita, e pertanto nei temi che trattiamo, in maniera diversa. Questo ci aiuta a non cadere in riflessioni che possono, di per sé, esser molto buone, ma che finiscono con l’omologare la vita della nostra gente o con il teorizzare a tal punto che la speculazione finisce coll’uccidere l’azione. Guardare continuamente al Popolo di Dio ci salva da certi nominalismi dichiarazionisti (slogan) che sono belle frasi ma che non riescono a sostenere la vita delle nostre comunità. Per esempio, ricordo ora la famosa frase: “è l’ora dei laici” ma sembra che l’orologio si sia fermato.
Guardare al Popolo di Dio è ricordare che tutti facciamo il nostro ingresso nella Chiesa come laici. Il primo sacramento, quello che sugella per sempre la nostra identità, e di cui dovremmo essere sempre orgogliosi, è il battesimo. Attraverso di esso e con l’unzione dello Spirito Santo, (i fedeli) “vengono consacrati per formare un tempio spirituale e un sacerdozio santo” (Lumen gentium, n. 10). La nostra prima e fondamentale consacrazione affonda le sue radici nel nostro battesimo. Nessuno è stato battezzato prete né vescovo. Ci hanno battezzati laici ed è il segno indelebile che nessuno potrà mai cancellare. Ci fa bene ricordare che la Chiesa non è una élite dei sacerdoti, dei consacrati, dei vescovi, ma che tutti formiano il Santo Popolo fedele di Dio. Dimenticarci di ciò comporta vari rischi e deformazioni nella nostra stessa esperienza, sia personale sia comunitaria, del ministero che la Chiesa ci ha affidato. Siamo, come sottolinea bene il concilio Vaticano II, il Popolo di Dio, la cui identità è “la dignità e la libertà dei figli di Dio, nel cuore dei quali dimora lo Spirito Santo come in un tempio” (Lumen gentium, n. 9). Il Santo Popolo fedele di Dio è unto con la grazia dello Spirito Santo, e perciò, al momento di riflettere, pensare, valutare, discernere, dobbiamo essere molto attenti a questa unzione.
Devo al contempo aggiungere un altro elemento che considero frutto di un modo sbagliato di vivere l’ecclesiologia proposta dal Vaticano II. Non possiamo riflettere sul tema del laicato ignorando una delle deformazioni più grandi che l’America Latina deve affrontare – e a cui vi chiedo di rivolgere un’attenzione particolare –, il clericalismo. Questo atteggiamento non solo annulla la personalità dei cristiani, ma tende anche a sminuire e a sottovalutare la grazia battesimale che lo Spirito Santo ha posto nel cuore della nostra gente. Il clericalismo porta a una omologazione del laicato; trattandolo come “mandatario” limita le diverse iniziative e sforzi e, oserei dire, le audacie necessarie per poter portare la Buona Novella del Vangelo a tutti gli ambiti dell’attività sociale e soprattutto politica. Il clericalismo, lungi dal dare impulso ai diversi contributi e proposte, va spegnendo poco a poco il fuoco profetico di cui l’intera Chiesa è chiamata a rendere testimonianza nel cuore dei suoi popoli. Il clericalismo dimentica che la visibilità e la sacramentalità della Chiesa appartengono a tutto il popolo di Dio (cfr. Lumen gentium, nn. 9-14), e non solo a pochi eletti e illuminati.
C’è un fenomeno molto interessante che si è prodotto nella nostra America Latina e che desidero citare qui: credo che sia uno dei pochi spazi in cui il Popolo di Dio è stato libero dall’influenza del clericalismo: mi riferisco alla pastorale popolare. È stato uno dei pochi spazi in cui il popolo (includendo i suoi pastori) e lo Spirito Santo si sono potuti incontrare senza il clericalismo che cerca di controllare e di frenare l’unzione di Dio sui suoi. Sappiamo che la pastorale popolare, come ha ben scritto Paolo VI nell’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, “ha certamente i suoi limiti. È frequentemente aperta alla penetrazione di molte deformazioni della religione”, ma prosegue, “se è ben orientata, soprattutto mediante una pedagogia di evangelizzazione, è ricca di valori. Essa manifesta una sete di Dio che solo i semplici e i poveri possono conoscere; rende capaci di generosità e di sacrificio fino all'eroismo, quando si tratta di manifestare la fede; comporta un senso acuto degli attributi profondi di Dio: la paternità, la provvidenza, la presenza amorosa e costante; genera atteggiamenti interiori raramente osservati altrove al medesimo grado: pazienza, senso della croce nella vita quotidiana, distacco, apertura agli altri, devozione. A motivo di questi aspetti, Noi la chiamiamo volentieri ‘pietà popolare’, cioè religione del popolo, piuttosto che religiosità… Ben orientata, questa religiosità popolare può essere sempre più, per le nostre masse popolari, un vero incontro con Dio in Gesù Cristo” (n. 48). Papa Paolo VI usa un’espressione che ritengo fondamentale, la fede del nostro popolo, i suoi orientamenti, ricerche, desideri, aneliti, quando si riescono ad ascoltare e a orientare, finiscono col manifestarci una genuina presenza dello Spirito. Confidiamo nel nostro Popolo, nella sua memoria e nel suo “olfatto”, confidiamo che lo Spirito Santo agisce in e con esso, e che questo Spirito non è solo “proprietà” della gerarchia ecclesiale.
Ho preso questo esempio della pastorale popolare come chiave ermeneutica che ci può aiutare a capire meglio l’azione che si genera quando il Santo Popolo fedele di Dio prega e agisce. Un’azione che non resta legata alla sfera intima della persona ma che, al contrario, si trasforma in cultura; “una cultura popolare evangelizzata contiene valori di fede e di solidarietà che possono provocare lo sviluppo di una società più giusta e credente, e possiede una sapienza peculiare che bisogna saper riconoscere con uno sguardo colmo di gratitudine” (Evangelii gaudium, n. 68).
Allora, da qui possiamo domandarci: che cosa significa il fatto che i laici stiano lavorando nella vita pubblica?
Oggigiorno molte nostre città sono diventate veri luoghi di sopravvivenza. Luoghi in cui sembra essersi insediata la cultura dello scarto, che lascia poco spazio alla speranza. Lì troviamo i nostri fratelli, immersi in queste lotte, con le loro famiglie, che cercano non solo di sopravvivere, ma che, tra contraddizioni e ingiustizie, cercano il Signore e desiderano rendergli testimonianza. Che cosa significa per noi pastori il fatto che i laici stiano lavorando nella vita pubblica? Significa cercare il modo per poter incoraggiare, accompagnare e stimolare tutti i tentativi e gli sforzi che oggi già si fanno per mantenere viva la speranza e la fede in un mondo pieno di contraddizioni, specialmente per i più poveri, specialmente con i più poveri. Significa, come pastori, impegnarci in mezzo al nostro popolo e, con il nostro popolo, sostenere la fede e la sua speranza. Aprendo porte, lavorando con lui, sognando con lui, riflettendo e soprattutto pregando con lui. “Abbiamo bisogno di riconoscere la città” – e pertanto tutti gli spazi dove si svolge la vita della nostra gente - “a partire da uno sguardo contemplativo, ossia uno sguardo di fede che scopra quel Dio che abita nelle sue case, nelle sue strade, nelle sue piazze… Egli vive tra i cittadini promuovendo la solidarietà, la fraternità, il desiderio di bene, di verità, di giustizia. Questa presenza non deve essere fabbricata, ma scoperta, svelata. Dio non si nasconde a coloro che lo cercano con cuore sincero” (Evangelii gaudium, n. 71). Non è ma il pastore a dover dire al laico quello che deve fare e dire, lui lo sa tanto e meglio di noi. Non è il pastore a dover stabilire quello che i fedeli devono dire nei diversi ambiti. Come pastori, uniti al nostro popolo, ci fa bene domandarci come stiamo stimolando e promuovendo la carità e la fraternità, il desiderio del bene, della verità e della giustizia. Come facciamo a far sì che la corruzione non si annidi nei nostri cuori.
Molte volte siamo caduti nella tentazione di pensare che il laico impegnato sia colui che lavora nelle opere della Chiesa e/o nelle cose della parrocchia o della diocesi, e abbiamo riflettuto poco su come accompagnare un battezzato nella sua vita pubblica e quotidiana; su come, nella sua attività quotidiana, con le responsabilità che ha, s’impegna come cristiano nella vita pubblica. Senza rendercene conto, abbiamo generato una élite laicale credendo che sono laici impegnati solo quelli che lavorano in cose “dei preti”, e abbiamo dimenticato, trascurandolo, il credente che molte volte brucia la sua speranza nella lotta quotidiana per vivere la fede. Sono queste le situazioni che il clericalismo non può vedere, perché è più preoccupato a dominare spazi che a generare processi. Dobbiamo pertanto riconoscere che il laico per la sua realtà, per la sua identità, perché immerso nel cuore della vita sociale, pubblica e politica, perché partecipe di forme culturali che si generano costantemente, ha bisogno di nuove forme di organizzazione e di celebrazione della fede. I ritmi attuali sono tanto diversi (non dico migliori o peggiori) di quelli che si vivevano trent’anni fa! “Ciò richiede di immaginare spazi di preghiera e di comunione con caratteristiche innovative, più attraenti e significative per le popolazioni urbane” (Evangelii gaudium, n. 73). È illogico, e persino impossibile, pensare che noi come pastori dovremmo avere il monopolio delle soluzioni per le molteplici sfide che la vita contemporanea ci presenta. Al contrario, dobbiamo stare dalla parte della nostra gente, accompagnandola nelle sue ricerche e stimolando quell’immaginazione capace di rispondere alla problematica attuale. E questo discernendo con la nostra gente e mai per la nostra gente o senza la nostra gente. Come direbbe sant’Ignazio, “secondo le necessità di luoghi, tempi e persone”. Ossia non uniformando. Non si possono dare direttive generali per organizzare il popolo di Dio all’interno della sua vita pubblica. L’inculturazione è un processo che noi pastori siamo chiamati a stimolare, incoraggiando la gente a vivere la propria fede dove sta e con chi sta. L’inculturazione è imparare a scoprire come una determinata porzione del popolo di oggi, nel qui e ora della storia, vive, celebra e annuncia la propria fede. Con un’identità particolare e in base ai problemi che deve affrontare, come pure con tutti i motivi che ha per rallegrarsi. L’inculturazione è un lavoro artigianale e non una fabbrica per la produzione in serie di processi che si dedicherebbero a “fabbricare mondi o spazi cristiani”.
Nel nostro popolo ci viene chiesto di custodire due memorie. La memoria di Gesù Cristo e la memoria dei nostri antenati. La fede, l’abbiamo ricevuta, è stato un dono che ci è giunto in molti casi dalle mani delle nostre madri, delle nostre nonne. Loro sono state la memoria viva di Gesù Cristo all’interno delle nostre case. È stato nel silenzio della vita familiare che la maggior parte di noi ha imparato a pregare, ad amare, a vivere la fede. È stato all’interno di una vita familiare, che ha poi assunto la forma di parrocchia, di scuola e di comunità, che la fede è giunta alla nostra vita e si è fatta carne. È stata questa fede semplice ad accompagnarci molte volte nelle diverse vicissitudini del cammino. Perdere la memoria è sradicarci dal luogo da cui veniamo e quindi non sapere neanche dove andiamo. Questo è fondamentale, quando sradichiamo un laico dalla sua fede, da quella delle sue origini; quando lo sradichiamo dal Santo Popolo fedele di Dio, lo sradichiamo dalla sua identità battesimale e così lo priviamo della grazia dello Spirito Santo. Lo stesso succede a noi quando ci sradichiamo come pastori dal nostro popolo, ci perdiamo. Il nostro ruolo, la nostra gioia, la gioia del pastore, sta proprio nell’aiutare e nello stimolare, come hanno fatto molti prima di noi, madri, nonne e padri, i veri protagonisti della storia. Non per una nostra concessione di buona volontà, ma per diritto e statuto proprio. I laici sono parte del Santo Popolo fedele di Dio e pertanto sono i protagonisti della Chiesa e del mondo; noi siamo chiamati a servirli, non a servirci di loro.
Nel mio recente viaggio in terra messicana ho avuto l’opportunità di stare da solo con la Madre, lasciandomi guardare da lei. In quello spazio di preghiera, le ho potuto presentare anche il mio cuore di figlio. In quel momento c’eravate anche voi con le vostre comunità. In quel momento di preghiera, ho chiesto a Maria di non smettere di sostenere, come ha fatto con la prima comunità, la fede del nostro popolo. Che la Vergine Santa interceda per voi, vi custodisca e vi accompagni sempre!
Dal Vaticano, 19 marzo 2016
Francesco
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IL DIO DI GESÙ E IL DIO DI PAOLO
José M. Castillo
A seconda di come è il Dio nel quale ognuno crede, così è la vita che ognuno fa. Chi pone la sua fede nel denaro, facciamo il caso, senza dubbio sarà un individuo la cui vita sarà retta dalla avarizia. E la cosa più probabile è che un tale soggetto finisca per essere un corrotto o un ladro. Un tipo così, sebbene dica di essere ateo, in realtà non lo è. Perché Dio è la realtà ultima che dà senso alla nostra vita. Una realtà che i suoi “credenti” sono disposti a servire. Per questo, senza dubbio, il Vangelo dice che il rivale di Dio è il denaro: “Non potete servire Dio ed il denaro” (Mt 6, 24; Lc 16, 13)), il “mamón” personificato come un potere che sta sempre in conflitto con quello che Dio esige e l’onesta domanda (H. Balz).
Detto ciò, se parliamo di Dio, così come tutto il mondo capisce la parola “Dio”, è importante sapere che, alle origini del cristianesimo, questa parola non ha sempre avuto lo stesso significato. In concreto, non è lo stesso il Dio che a noi si rivela in Gesù di quello del quale ci parla Paolo di Tarso. Questo in sè comporta conseguenze di enorme importanza, come dirò dopo.
In quanto al Dio di Paolo, l’esperienza vissuta da Paolo sulla via di Damasco non è stata una “conversione” (“metánoia”), nel senso proprio di questa parola.
Prima di tutto, perché Paolo non applica a se stesso il vocabolario specifico della conversione, nei ripetuti racconti lasciatici dallo stesso Paolo (Gal 1, 11-16; 1 Cor 9, 1; 15, 8; 2 Cor 4, 6) e dei quali Luca, nel libro degli Atti, offre tre racconti dettagliati (9, 1-19; 22, 3-21; 26, 9-18).
Paolo, dopo quello che ha vissuto sulla via di Damasco, ha continuato a credere nello stesso Dio nel quale ha sempre creduto, “il Dio dei nostri Padri” (At 22, 14), ed a vivere la religione nella quale era stato educato (S. Légasse). Per questo, quando Paolo parla di Dio, si riferisce al Dio di Abramo ed alle promesse fatte ad Abramo (Gal 3, 16-21: Rm 4, 2-20) (U. Schnelle).
Ebbene, sappiamo che il Dio di Abramo è il Dio che chiese ad Abramo l’uccisione e l’offerta, come “sacrificio” religioso, del suo figlio amato (Gen 22, 1-2).
È, quindi, il Dio che ha bisogno di sofferenza, di sangue e di morte per perdonare, secondo il principio spaventoso raccolto dalla lettera agli Ebrei: “senza effusione di sangue non vi è remissione” (Eb 9, 22).
Il contrasto con il Dio di Paolo è il Dio del quale ci parla continuamente Gesù e che si dà a conoscere a noi per mezzo della vita e degli insegnamenti di Gesù. Si tratta del Dio che Gesù presenta sempre come Padre. Ma non a partire dal modello del paterfamilias, il padre e padrone del gruppo familiare, che si definiva a partire dal “potere”.
No. Gesù parla sempre del Padre, che si comprende a partire dall’”amore”, dalla bontà e dalla misericordia. Così, nella parabola del figlio traviato (Lc 15, 11-32), che il padre accoglie, perdona e per il quale fa festa, senza chiedergli conto, nè spiegazioni, nè giustificazione alcuna. È il Padre “che fa sorgere il suo sole sui cattivi come sui buoni e fa piovere sui giusti come sugli empi” (Mt 5, 45). E soprattutto il Padre che si è dato a conoscere a noi in Gesù (Gv 1, 18), in maniera tale che chi vedeva Gesù, per questo stesso motivo e solo per questo vedeva il Padre (Gv 14, 9). Il Padre della misericordia, che accoglie i peccatori e vive con loro (Lc 15, 1-2; Mc 2, 15-17; Mt 9, 10-13; Lc 5, 29-32). Il Padre che, nella vita e nel comportamento di Gesù, ha fatto capire chiaramente che le sue tre grandi preoccupazioni sono state la sofferenza degli ammalati, l’indigenza dei poveri e le migliori relazioni personali tra gli esseri umani.
La conseguenza di quanto detto si comprende facilmente. Ho iniziato dicendo che, a seconda di come è il Dio nel quale ognuno crede, così è la vita che fa.
A prima vista, sembra che il Dio più duro ed esigente sia il Dio di Paolo. In realtà non è così.
Il Dio di Paolo esige sacrificio e culto. A noi non chiede più questo. Ci chiede di ripetere il “sacrificio rituale”, che rievoca ed attualizza il sacrificio di Cristo sulla croce. Per questo andiamo a messa. E, se non possiamo, paghiamo le messe. Perchè è importante lasciare la coscienza tranquilla, in pace, per sentirsi perdonato.
Il Dio di Gesù, così come a noi si è rivelato nella vita, negli insegnamenti e nel comportamento di Gesù, non ha chiesto di compiere rituali del culto nel tempio. Quello che ha chiesto è stato che rispettiamo tutti, che perdoniamo tutti, che amiamo sempre tutti, che siamo sempre buoni e che ci sentiamo liberi per lavorare a fondo per una vita ed una società più egualitaria, più giusta, più felice, soprattutto per quelli che soffrono di più.
Ebbene, stando così le cose, è chiaro che il Dio che ci fa veramente paura, al quale resistiamo di più, non è il Dio di Paolo, ma quello di Gesù.
Di fatto, nella Chiesa e nella teologia il Dio di Paolo è stato (e continua ad essere) più presente di quello di Gesù.
Non sarà così perché con il Dio di Paolo è possibile conservare il solenne pasticcio clericale che conserviamo, mentre con il Dio di Gesù, se lo prendiamo sul serio, dovremmo modificare cose e comportamenti che non siamo disposti a cambiare?
Articolo pubblicato il 4.4.2016 nel Blog dell’Autore in Religión Digital
Traduzione di Lorenzo TOMMASELLI
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II DOPO NATALE; C; Sir 24, 1-4. 8-12; Sal 147; Ef 1, 3-6. 15-18; Gv 1,1-18 - 3/01/2016 - Ernesto Balducci – da: “Il tempo di Dio” le ultime omelie.
In questo momento il mondo musulmano vive in maniera drammatica questa sua immersione nei suoi confini culturali dove si nascondono ragioni storiche, fin troppo comprensibili, al risentimento, alla rivincita. Però nella fede islamica c'è una grande verità, quella del patto primordiale fra Dio e Adamo come primo uomo, cioè con l'umanità.
... La sapienza è una qualità che non si acquista con la cultura, anzi che è, se la cultura è consapevole dei propri limiti, in perenne dialettica con la cultura e noi ne possiamo avere l'esperienza.
Se io guardo i ricchi, o i Sette paesi ricchi del mondo nei loro rappresentanti, sono portato a dire: Beati noi! o Beati loro! Se invece li guardo con l'altro occhio dico: Beati i poveri! Chi ha ragione? La Sapienza non guarda con l'occhio costituito. Secondo quest'occhio sono beati i ricchi, quelli che hanno successo, e via via. Invece secondo quest'altro occhio la beatitudine è altrove. Noi siamo, quanto meno, duplici. La sapienza consiste in quella luce che sveglia, che illumina l'occhio profondo che sul piano empirico del vivere non è una felicità. A volte siamo portati ad invidiare quelli che hanno solo un paio d'occhi, quelli che ci vogliono. Ma appena appena un dono di sapienza ci sorregge, ci prende quanto meno il sospetto che essi siano ciechi. "Hanno occhi e non vedono - dice il Signore -, hanno orecchi e non sentono».
Quest'occhio più profondo, illuminato dalla Sapienza, ci unisce a tutte le creature. La cecità parziale, o una forma di daltonismo mentale deriva dalla nostra immanenza totale dentro il mondo a cui apparteniamo. Se guardiamo il modo di vivere di tribù lontane spesso ci viene da sorridere o abbiamo pena. Li sentiamo così altri, così diversi: non sono uomini! Lo abbiamo detto e ne abbiamo tirate le conseguenze.
Ma se partissimo dal presupposto che, in realtà, fin dalla creazione del mondo la Sapienza ha improntato se stessa in tutte le creature che esistono? Che il nostro compito è di scoprire questi germi di Sapienza ovunque disseminati? Il martire cristiano Giustino diceva che c'è un "Verbo disseminato dovunque". Non lo dobbiamo dire per creare una premessa per l'appropriazione ma per andare a cercarlo. Scrutiamo la Sapienza che è in ogni essere umano e in ogni gruppo umano. Questa è la spinta che dobbiamo avere.
E infatti, calcando schematicamente, e quindi con qualche ingiustizia, le cose, potrei dire che la diversità fra l'ottica veterotestamentaria riguardo alla Sapienza e l'ottica di Gesù è che secondo la prima ottica si dice: "Tutti i popoli verranno sul monte di Sion", ma Gesù, quando si commiata dai suoi, dice: «Andate fino ai confini della terra". La spinta è centrifuga, non centripeta, cioè non segue l'impulso etnocentrico, che è la nostra terribile tentazione, ma lo contesta. Questa spinta è la spinta della Sapienza. Noi oggi siamo nella necessità di rinvigorire questa certezza per ritrovare un occhio evangelico che è l'occhio sapienziale.
Ecco perché spesso mi dà fastidio, ma è un fastidio di derivazione culturale, quando sento parlare di cattolici, protestanti, ortodossi ... Questi sono occhi discutibili, e lo sappiamo bene! L'occhio cattolico - cattolico vuol dire universale! - ha visto le cose dividendole e usando, secondo le possibilità, o la scomunica o la spada. Ma non è che gli altri vadano meglio! Un occhio evangelico è un occhio sapienziale per cui queste divisioni non contano, sono il frutto del nostro egocentrismo, o di tipo individuale o di tipo collettivo. Le preoccupazioni di dividere le competenze sono detestabili. Gesù ha abbattuto le mura del tempio perché il tempio divide. Ha superato la legge perché la legge unisce ma divide, separa dagli altri.
Questa è la novità straordinaria che è tutta, come voi capite, da riscoprire. Il fatto curioso è che quando ci si misura con il Vangelo sentiamo che bisogna ricominciar daccapo e credo che sarà sempre così, perché, per un verso, noi non possiamo affatto svaporare nell'indeterminato, nell'etereo, nell'extra temporale: siamo figli del tempo. È il nostro limite. Dall'altra, in quanto optiamo per questa Sapienza, usciamo fuori dal nostro tempo.
Però non si può vivere questa duplicità senza tribolazione e senza pagare un qualche tributo alla nostra finitezza, alla nostra limitatezza storica. Non c'è santo, che io guardi nel passato, nemmeno Francesco d'Assisi, che non abbia pagato il tributo alla sua immanenza a quella data cultura che io non devo accettare. Ecco la duplicità inevitabile. Però è una duplicità che se sopportata con umiltà e fecondità, è ricchezza. In questo momento io penso, ad esempio, come sia possibile applicare questo schema che ho suggerito a tutte le altre grandi esperienze sapienziali e religiose della terra, perché io parto dal presupposto che la Sapienza c'è anche nei libri Vedici, anche nel Corano. La Sapienza è dovunque. Non devo bruciare i libri, devo scoprire che Sapienza c'è.
In questo momento il mondo musulmano vive in maniera drammatica questa sua immersione nei suoi confini culturali dove si nascondono ragioni storiche, fin troppo comprensibili, al risentimento, alla rivincita. Però nella fede islamica c'è una grande verità, quella del patto primordiale fra Dio e Adamo come primo uomo, cioè con l'umanità. C'è la certezza che tutti gli uomini sono intimamente 'musulmani', che vuol dire uomini di fede perché questa Sapienza primordiale illumina ogni uomo.
Noi dovremmo aiutare il musulmano non a convertirsi a noi ma a convertirsi alla radice sapienziale della sua storia di fede, che poi è un modo di convergere. E così potrei dire delle altre religioni. C'è una scintilla alle origini che nella incarnazione storica è rimasta imprigionata dentro il particolare che è diventato più terribile perché carico di questa energia atomica che è l'intuizione di partenza. In fondo uno scettico assoluto è anche una persona tollerabile: non crede in nulla, non è un fanatico.
Pericoloso è chi ha in sé una certezza universale perché ha in sé l'atomo la cui scissione può far esplodere il mondo intero. Purtroppo i fanatismi religiosi sono una piaga incredibile nella storia. Non dobbiamo subordinare l'occhio sapienziale al nostro sguardo che ci è stato dato dalla cultura di cui siamo figli e che prima o poi morirà perché tutto è perituro. Solo la Sapienza non muore perché essa non è dentro il tempo ma prima del tempo. Quando diciamo prima non vogliamo alludere soltanto ad un momento cronologico ma alludiamo ad una gerarchia assiologica: sta da principio ciò che è costitutivo.
Questa Sapienza è costitutiva della nostra universalità a cui siamo chiamati con impellenza dai tempi che stiamo vivendo, che dovrebbero essere i tempi della comunione sapienziale fra tutti gli esseri. Io sogno un cristiano che invece di andare a convertire gli altri facendoli come se stesso, vada a scoprire negli altri la Sapienza che c'è: "il regno di Dio è già fra di voi". Noi dovremo far crescere ciò che già c'è, che è un processo inverso.
Dobbiamo convertirci agli altri, cioè alla Sapienza che è negli altri. Se così facciamo siamo infedeli al nostro particolarismo. Questo è un procedimento che dobbiamo avviare con tutte le difficoltà, anche concettuali, che questo comporta ma è questo, a mio giudizio, l'imperativo storico, il momento opportuno nella storia dell'umanità in cui il dono della Sapienza dovrebbe aprirci gli occhi.
Vorrei chiudere ripetendo, dopo quel che ho detto, il bell'auspicio di Paolo: "Possa Dio illuminare gli occhi della vostra mente per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati".
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Natale: le tre nascite di Gesù - di ENZO BIANCHI - Avvenire, 20 dicembre 2015
La festa di Natale si avvicina e molti cristiani si apprestano a celebrarla, preparando anche i festeggiamenti che essa tradizionalmente richiede. In questa lunga vigilia che ormai è sempre più anticipata, e di conseguenza prolungata, per ragioni commerciali, non certo “spirituali”, si levano alcune voci critiche verso il consumismo, che scaturisce dall’ebbrezza connessa alle feste; altre voci richiamano l’attenzione sui poveri, sui senza casa, simboleggiati nei presepi; per altri ancora il Natale è l’occasione di una guerra culturale contro quelli che non sono cristiani; per altri, infine, il modo di vivere questa festa è epifania della stupidità che rinuncia a simboli e segni per non mettere in imbarazzo chi è estraneo alla fede cristiana. Sembra che la vigilia, anziché essere un tempo di preparazione e di maggior consapevolezza di ciò che si celebra, sia un pretesto per altre preoccupazioni.
Va anche registrata una forte caduta della qualità della fede, perché il popolo cristiano, non educato ma anzi sviato, non sa più cosa sia veramente il Natale e cosa è chiamato a celebrare. Lo dimostra la vulgata che ormai si è imposta: “Aspettiamo che nasca Gesù bambino … Ci prepariamo alla nascita di Gesù … Gesù sta per nascere: venite, adoriamo!”. Espressioni, queste, prive di qualsiasi qualità di fede adulta e secondo il Vangelo. Perché? Perché Gesù è nato una volta per sempre a Betlemme, da Maria di Nazaret, dunque non si deve più attendere la sua nascita: altrimenti si tratterebbe di un’ingenua regressione devota e psicologizzante che depaupera la speranza cristiana, oppure di una finzione degna della scena di un teatro, non della fede cristiana! Non ci si prepara alla Natività di Gesù Cristo, perché a Natale – come recita la liturgia – si fa memoria (commemoratio, dice l’antico martirologio) di un evento del passato, già avvenuto “nella pienezza del tempo” (Gal 4,4).
Cosa dunque si celebra a Natale da autentici cristiani? Si fa memoria della nascita di Gesù, della nascita da donna del Figlio di Dio, della “Parola fatta carne” (cf. Gv 1,14), umanizzata in Gesù di Nazaret. A Natale, inoltre, volgiamo i nostri sguardi alla venuta gloriosa di Cristo alla fine dei tempi perché, secondo la promessa che ripetiamo nel Credo, “verrà a giudicare i vivi e i morti e il suo Regno non avrà fine”. Tutto l’Avvento ha il significato di preparazione a questo evento finale della venuta gloriosa di Gesù Cristo, non alla nascita del santo bambino. Infine, a Natale ogni cristiano deve vivere e celebrare la nascita o la venuta del Signore Gesù nel suo cuore, nella sua vita. La grande tradizione della chiesa cattolica, fin dagli antichi padri d’oriente e d’occidente, ha meditato su queste tre nascite o venute del Signore, e proprio in base a questa consapevole percezione dovuta allo Spirito i sacramentari gelasiano e gregoriano introdussero le tre messe di Natale: notte, aurora e giorno. Sono poi stati soprattutto i padri cistercensi del XII secolo a sostare maggiormente sul mistero del Natale come giorno delle tre nascite di Cristo: Bernardo di Clairvaux per primo distingue, medita e commenta queste tre nascite, e subito dopo i suoi discepoli, Guerrico di Igny e Isacco della Stella.
Facile la meditazione sulla prima venuta di Gesù, quella dell’incarnazione, illustrata dai “vangeli dell’infanzia” di Matteo e di Luca (cf. Mt 1-2; Lc 1-2): è un evento che si compie nell’umiltà, perché Gesù nasce da Maria nella campagna di Betlemme, non avendo trovato i suoi un alloggio nel caravanserraglio. Di questa nascita avvenuta quando Cesare Augusto era imperatore ed Erode re di Galilea, non si accorgono né i potenti né gli uomini del culto e della legge: sono pastori, poveri coloro ai quali Dio dà l’annuncio della nascita il Messia, il Salvatore. I nostri presepi la rappresentano bene, ma questo “memoriale” di un evento avvenuto nella storia autorizza la lettura di due ulteriori nascite-venute del Signore.
In primo luogo la venuta del Signore nella gloria alla fine dei tempi: colui che è venuto nell’umiltà della carne fragile e mortale degli umani verrà con un corpo spirituale, glorioso, vincitore della morte e di ogni male, per instaurare il suo Regno. Questa è la parusia, la manifestazione di Gesù quale Signore di fronte a tutta la creazione. L’Avvento insiste soprattutto su questa venuta per chiederci di vigilare, di essere pronti, di pregare per affrettarla, perché egli viene e viene presto! Purtroppo a tale venuta si fa sempre meno cenno nella chiesa e la predicazione spesso è muta su questo tema. Eppure ciò è decisivo per la fede: se Cristo non viene nella gloria quale giudice e instauratore definitivo del Regno, allora vana è la nostra fede, vana la nostra affermazione che egli è risorto, miserabile la nostra vita di sequela (cf. 1Cor 15,19). Purtroppo nella vita secolare della chiesa attraversiamo raramente periodi di “febbre escatologica” e quasi sempre restiamo nel torpore di chi è spiritualmente sonnambulo e non attende più nulla. Non è un caso che Ignazio Silone, questo grande cristiano, a chi gli chiedeva perché non entrasse a far parte della chiesa, dal momento che aveva ritrovato una fede profonda in Gesù e nel Vangelo, rispose: “Per far parte di quelli che dicono di aspettare il Signore, e lo aspettano con lo stesso entusiasmo con cui si aspetta il tram, non ne vale la pena!”.
Infine, il Natale è l’occasione per rinnovare la fede nella terza nascita di Gesù: la venuta di Gesù in noi che può avvenire ogni giorno, hic et nunc, qui e adesso. Il cristiano sa che il suo corpo è chiamato a essere dimora di Dio, tempio santo. Ecco allora l’importanza che il Signore Gesù venga, nasca in noi, nel nostro cuore, in modo che la sua vita sia innestata nella nostra vita, fino a poter dire nella fede: “Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me” (Gal 2,20). È una venuta che ciascuno di noi deve invocare – “Marana tha! Vieni, Signore Gesù!” (1Cor 16,22; Ap 22,20) –, deve preparare, predisponendo tutto per l’accoglienza del Signore che viene nella sua Parola, nell’Eucaristia e nei modi che egli solo decide, in base alla sua libertà e alla potenza dello Spirito santo. Occorre essere vigilanti, in attesa, pronti, con il cuore ardente come quello della sentinella che aspetta l’aurora. Qui occorrerebbe ascoltare san Bernardo che ci parla delle “visite del Verbo, della Parola”, in cui il Signore Gesù Cristo viene in noi: evento spirituale, nascosto, umile, ma sperimentabile. Ecco solo due stralci delle sue meditazioni:
Conosciamo una triplice venuta del Signore. Una venuta nascosta si colloca infatti tra le altre due, che sono manifeste. Nella prima il Verbo “è apparso sulla terra e ha vissuto tra gli uomini” (Bar 3,38) … Nell’ultima venuta “ogni carne vedrà la salvezza di Dio” (Lc 3,6) e “volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto” (Gv 19, 37; cf. Zc 12,10). La venuta intermedia è invece nascosta … Nella prima venuta, dunque, “venne nella carne” (1Gv 4,2) e nella debolezza, in questa intermedia viene “in Spirito e potenza” (Lc 1,17), nell’ultima “verrà nella gloria” (Lc 9,26) e nella maestà … Quindi questa venuta intermedia è, per così dire, una via che unisce la prima all’ultima: nella prima “Cristo” fu “nostra redenzione” (1Cor 1,30), nell’ultima “si manifesterà come nostra vita” (Col 3,4), in questa … è nostro riposo e nostra consolazione.
(Discorsi sull’Avvento V,1)
Confesso che il Verbo mi ha visitato più volte. Benché sia spesso entrato in me, non l’ho mai sentito entrare. Ho sentito che era là, mi ricordo della sua presenza … Ma da dove sia venuto nella mia anima, o dove sia andato nel lasciarla, da dove sia entrato e uscito, confesso che oggi ancora lo ignoro … È solo grazie ai moti del mio cuore che mi sono reso conto della sua presenza … Finché vivrò, non cesserò di invocare, per richiamare in me il Verbo: “Ritorna!” (Ct 2,17). E ogni volta che se ne andrà, ripeterò questa invocazione, con il cuore ardente di desiderio.
(Discorsi sul Cantico dei cantici LXXIV,5-7)
Ecco il vero Natale cristiano: noi ricordiamo la tua nascita a Betlemme, Signore,
attendiamo la tua venuta nella gloria,
accogliamo la tua nascita in noi, oggi.
Per questo il mistico del XVII secolo Angelo Silesio poteva affermare: “Nascesse mille volte Gesù a Betlemme, se non nasce in te… tutto è inutile”.
Pubblicato su: Avvenire
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Incarnazione senza astrazioni - Enzo Bianchi
Jesus - Rubrica La bisaccia del mendicante - Dicembre 2015
dal sito del Monastero di Bose
http://alzogliocchiversoilcielo.blogspot.it/2015/12/enzo-bianchi-incarnazione-senza.html#more
Al cuore della nostra fede c’è il mistero dell’incarnazione di Dio: Dio si è fatto uomo in Gesù di Nazareth, il quale è nato, ha vissuto, è morto quale umana creatura nella storia e in mezzo all’umanità.
Tuttavia, questa fede che noi confessiamo non sempre ci appare in tutte le sue conseguenze: ripetiamo che Dio si è fatto uomo, ma poi non approfondiamo, non osiamo dare alla carne di Gesù il peso che merita, la realtà che essa è in un corpo umano.
Innanzitutto, dire che Dio si è incarnato significa dire che non si è fatto uomo in generale, non ha semplicemente unito la natura umana alla sua qualità di Figlio di Dio, ma che è diventato un uomo “singolare”, preciso. E questo è avvenuto nascendo da Maria di Nazareth – “nato da donna”, scrive san Paolo (Gal 4,4) – ma cresciuto nel mondo a poco a poco, costruendosi in una persona plasmata dalla famiglia natale, dalle esperienze vissute, dalle contraddizioni affrontate, dal bene e dal male che ha dovuto riconoscere nel mondo e tra gli esseri umani. Dovremmo dire non solo che Dio si è incarnato, ma Dio si è umanizzato! Non facciamo letture cariche di supposizioni o di ipotesi psicologiche – tanto praticate oggi, ma svianti e sovente insensate – atteniamoci invece ai vangeli.
La venuta del Figlio di Dio che rinunciava al privilegio della sua condizione di Dio, spogliandosi degli attributi divini, non poteva avvenire se non in una famiglia credente e povera tra quelli che erano gli anawim, i “curvati”, i poveri che aspettavano la salvezza solo da Dio. E sua madre, Maria, e suo padre secondo la legge, Giuseppe, accolgono Gesù e lo mettono al mondo dandogli quell’amore e quella fiducia indispensabili a un bambino per crescere.
Anche nel rapporto filiale con Maria e Giuseppe, Gesù ha vissuto fatiche, difficoltà, contraddizioni… Certo, Maria era una donna che viveva dell’obbedienza alla parola di Dio, e Giuseppe è detto “uomo giusto”, dunque erano dei buoni genitori, ma questo non risparmia a Gesù le difficoltà quotidiane che si incontrano crescendo in una famiglia umana. In questo modo Gesù si umanizza come ogni essere umano e la sua personalità viene plasmata dalle relazioni con quei precisi parenti (“fratelli e sorelle di Gesù”), in quel preciso villaggio di Nazareth, con quanti frequentavano la sua famiglia e l’officina del carpentiere Giuseppe. Così è cresciuto umanizzandosi, imparando a “diventare un uomo”, a plasmare la sua personalità con il bagaglio ricevuto (la natura) e la storia in cui era immesso (la cultura). Dio, suo Padre, ha saputo rispettare la crescita autonoma di Gesù, senza mai fargli mancare l’ispirazione, la grazia, la fedeltà. La Lettera agli Ebrei lo dice con chiarezza: “Gesù imparò attraverso le sofferenze patite l’obbedienza filiale” (Ebr 5,8).
Purtroppo in molti cristiani questa immagine di Gesù veramente umano, umanissimo, è assente perché la sua qualità di Dio pare potersi affermare solo a scapito della sua qualità umana. L’umanizzazione di Dio ci scandalizza, e d’altronde questa è una verità solo cristiana, aborrita dai monoteismi, sia quello giudaico che quello dell’islam. Resta la verità dei vangeli: Gesù non è stato uomo per finta, non era solo simile a noi, era “della nostra stessa pasta”, come dicevano i primi padri della chiesa. E se i vangeli non ci parlano di Gesù nella crescita e nella giovinezza è perché non c’era nulla da dire, essendo la sua vita così ordinaria e quotidiana. Tuttavia non si finisca per pensare che questa umanissima condizione di Gesù gli impedisse di ascoltare Dio in un modo personalissimo, unico, come unica era la sua venuta nel mondo: unica ma sempre umanissima. “Cresceva in sapienza, in taglia e in grazia presso Dio e presso gli uomini” (Lc 2,52) e quindi sapeva afferrare nella sua esistenza umana ciò che Dio Padre voleva da lui, anche quando Giuseppe e Maria non lo capivano.
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Adro
Sono figlio di un mezzadro che non aveva soldi ma un infinito patrimonio di dignità. Ho vissuto i miei primi anni di vita in una cascina come quella del film “L’albero degli zoccoli”. Ho studiato molto e oggi ho ancora intatto tutto il patrimonio di dignità e inoltre ho guadagnato i soldi per vivere bene.
È per questi motivi che ho deciso di rilevare il debito dei genitori di Adro che non pagano la mensa scolastica. A scanso di equivoci, premetto che: Non sono “comunista”. Alle ultime elezioni ho votato per Formigoni. Ciò non mi impedisce di avere amici di tutte le idee politiche. Gli chiedo sempre e solo la condivisione dei valori fondamentali e al primo posto il rispetto della persona. So perfettamente che fra le 40 famiglie alcune sono di furbetti che ne approfittano, ma di furbi ne conosco molti. Alcuni sono milionari e vogliono anche fare la morale agli altri. In questo caso, nel dubbio sto con i primi. Agli extracomunitari chiedo il rispetto dei nostri costumi e delle nostre leggi, chiedo con fermezza ed educazione cercando di essere il primo a rispettarle. E tirare in ballo i bambini non è compreso nell’educazione.
Ho sempre la preoccupazione di essere come quei signori che seduti in un bel ristorante se la prendono con gli extracomunitari. Peccato che la loro Mercedes sia appena stata lavata da un albanese e il cibo cucinato da un egiziano. Dimenticavo, la mamma è a casa assistita da una signora dell’Ucraina.
Vedo attorno a me una preoccupante e crescente intolleranza verso chi ha di meno. Purtroppo ho l’insana abitudine di leggere e so bene che i campi di concentramento nazisti non sono nati dal nulla, prima ci sono stati anni di piccoli passi verso il baratro. In fondo in fondo chiedere di mettere una stella gialla sul braccio agli ebrei non era poi una cosa che faceva male. I miei compaesani si sono dimenticati in poco tempo da dove vengono. Mi vergogno che proprio il mio paese sia paladino di questo spostare l’asticella dell’intolleranza di un passo all’anno, prima con la taglia, poi con il rifiuto del sostegno regionale, poi con la mensa dei bambini, rna potrei portare molti altri casi. Quando facevo le elementari alcuni miei compagni avevano il sostegno del patronato. Noi eravamo poveri, ma non ci siamo mai indignati. Ma dove sono i miei compaesani, ma come è possibile che non capiscano quello che sta avvenendo? Che non mi vengano a portare considerazioni “miserevoli”. Anche il padrone del film di cui sopra aveva ragione. La pianta che il contadino aveva tagliato era la sua. Mica poteva metterla sempre lui la pianta per gli zoccoli. (E se non conoscono il film che se lo guardino…).
Ma dove sono i miei sacerdoti. Sono forse disponibili a barattare la difesa del crocifisso con qualche etto di razzismo. Se esponiamo un bel rosario grande nella nostra casa, poi possiamo fare quello che vogliamo? Vorrei sentire i miei preti “urlare”, scuotere l’animo della gente, dirci bene quali sono i valori, perché altrimenti penso che sono anche loro dentro il “commercio”.
Ma dov’è il segretario del partito per cui ho votato e che si vuole chiamare “partito dell’amore”. Ma dove sono i leader di quella Lega che vuole candidarsi a guidare l’Italia. So per certo che non sono tutti ottusi ma che non si nascondano dietro un dito, non facciano come coloro che negli anni 70 chiamavano i brigatisti “compagni che sbagliano”.
Ma dove sono i consiglieri e gli assessori di Adro? Se credono davvero nel federalismo, che ci diano le dichiarazioni dei redditi loro e delle famiglie negli ultimi 10 anni. Tanto per farci capire come pagano le belle cose e case. Non vorrei mai essere io a pagare anche per loro. Non vorrei che il loro reddito (o tenore di vita) venga dalle tasse del papà di uno di questi bambini che lavora in fonderia per 1.200 euro mese (regolari).
Ma dove sono i miei compaesani che non si domandano dove, come e quanti soldi spende l’amministrazione per non trovare i soldi per la mensa. Ma da dove vengono tutti i soldi che si muovono, e dove vanno? Ma quanto rendono (O quanto dovrebbero o potrebbero rendere) gli oneri dei 30000 metri cubi del laghetto Sala. E i 50000 metri della nuova area verde sopra il Santuario chi li paga? E se poi domani ci costruissero? E se il Santuario fosse tutto circondato da edifici? Va sempre bene tutto? Ma non hanno il dubbio che qualcuno voglia distrarre la loro attenzione per fini diversi. Non hanno il dubbio di essere usati? È già successo nella storia e anche in quella del nostro paese.
IL SONNO DELLA RAGIONE GENERA MOSTRI Io sono per la legalità. Per tutti e per sempre. Per me quelli che non pagano sono tutti uguali, quando non pagano un pasto, ma anche quando chiudono le aziende senza pagare i fornitori o i dipendenti o le banche. Anche quando girano con i macchinoni e non pagano tutte le tasse, perché anche in quel caso qualcuno paga per loro. Sono come i genitori di quei bambini. Ma che almeno non pretendano di farci la morale e di insegnare la legalità perché tutti questi begli insegnamenti li stanno dando anche ai loro figli.
E CHI SEMINA VENTO, RACCOGLIE TEMPESTA! I 40 bambini che hanno ricevuto la lettera di sospensione servizio mensa, fra 20/30 anni vivranno nel nostro paese. L’età gioca a loro favore. Saranno quelli che ci verranno a cambiare il pannolone alla casa di riposo. Ma quel giorno siamo sicuri che si saranno dimenticati di oggi? E se non ce li volessero piu cambiare? Non ditemi che verranno i nostri figli perché il senso di solidarietà glielo stiamo insegnando noi adesso. È anche per questo che non ci sto. Voglio urlare che io non ci sto. Ma per non urlare e basta ho deciso di fare un gesto che vorrà dire poco, ma vuole tentare di svegliare la coscienza dei miei compaesani. Ho versato quanto necessario a garantire il diritto all’uso della mensa per tutti i bambini, in modo da non creare rischi di dissesto finanziario per l’amministrazione. In tal modo mi impegno a garantire tutta la copertura necessaria per l’anno scolastico 2009/2010. Quando i genitori potranno pagare, i soldi verranno versati in modo normale, se non potranno a vorranno pagare il costa della mensa residua resterà a mio totale carico. Ogni valutazione dei vari casi che dovessero crearsi è nella piena discrezione della responsabile del servizio mensa. Sono certo che almeno uno di quei bambini diventerà docente universitario o medico o imprenditore o infermiere e il suo solo rispetto varrà la spesa. Ne sono certo perché questi studieranno mentre i nostri figli faranno le notti in discoteca o a bearsi con i valori del “grande fratello”. Il mio gesto è simbolico perché non posso pagare per tutti o per sempre e comunque so benissimo che non risolvo certo i problemi di quelle famiglie. Mi basta sapere che per i miei amministratori, per i miei compaesani e molto di più per quei bambini sia chiaro che io non ci sto e non sono solo. Molto più dei soldi mi costerà il lavorio di diffamazione che come per altri casi verrà attivato da chi sa di avere la coda di paglia. Mi consola il fatto che catturerà soltanto quelle persone che mi onoreranno del loro disprezzo. Posso sopportarlo. L’idea che fra 30 anni non mi cambino il pannolone invece mi atterrisce. Ci sono cose che non si possono comprare. La famosa carta di eredito c’e, ma solo per tutto il resto.
Un cittadino di Adro
(Silvano Lancini)
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GIÀ LO SAPEVO! - P. Alberto Maggi
Quale atteggiamento deve avere la comunità dei credenti di fronte ai nuovi problemi e alle nuove tematiche che la vita continuamente presenta? La tentazione, sempre ricorrente, è quella di guardare al passato, e in questi casi da che mondo è mondo è la frase magica usata per rifarsi alla tradizione e difendere modelli di vita consuetudinari, cercando di farli risalire all’origine dell’uomo. Con questo atteggiamento si ignora il cammino evolutivo dell’umanità, che è giunta sino a oggi proprio perché non ripete schemi del passato, ma sempre ne crea di nuovi. È un dato di fatto che nell’evoluzione della specie non sopravvive il più forte, ma solo chi è capace di cambiare e adattarsi alle nuove condizioni ambientali.
Per percepire l’azione di Dio pertanto non bisogna guardare indietro né rifarsi al passato, a quel che si sa, ma occorre essere disposti ad aprirsi al nuovo, a quel che viene e verrà: Ora ti faccio udire cose nuove e segrete, che tu nemmeno sospetti. Ora sono create e non da tempo; prima di oggi tu non le avevi udite, perché tu non dicessi: Già lo sapevo (Is 48,6-7).
Già lo sapevo!…. Chi si rifà al passato nega la continua azione creatrice del Signore. Potrà rifarsi alla teologia della riesumazione, rispolverando dottrine, formule e paramenti di un passato ormai morto e imbalsamato, ma non all’azione del Salvatore. La comunità cristiana non si fonda quindi sul sapere, la conoscenza del Dio dei padri, ma sull’apprendere, nell’ascolto di un Dio sempre presente: Ecco, io sono con voi tutti i giorni! (Mt 28,20).
È pertanto il rinnovamento il motore che anima la comunità dei credenti. Non si deve guardare al passato, ma al presente, non al vecchio, ma al nuovo. È il cuore dei padri (il passato) che deve volgersi verso i figli (il nuovo), e non il contrario (Lc 1,17; Ml 3,23). Non a caso le prime parole di Gesù non sono un invito alla conservazione, ma al cambiamento: Convertitevi e credete al vangelo (Mc 1,15).
Se non è al passato che si deve guardare, ma al presente, quali sono i criteri per una risposta adeguata ai nuovi bisogni dell’umanità? La comunità cristiana ha una grande certezza: la promessa di Gesù che lo Spirito l’avrebbe sempre guidata a tutta la verità e, soprattutto, che lo Spirito avrebbe sempre annunciato le cose future (Gv 16,13).
Lo Spirito, il dinamismo d'amore che procede dal Padre, darà alla comunità la capacità di avere sempre nuove risposte ai nuovi bisogni emergenti. La comunità non dovrà guardare alla dottrina, ma alla vita, non alla Legge ma al bene dell'uomo. E la stessa parola del Signore dovrà essere animata dal suo Spirito, altrimenti, come insegna Paolo, anziché essere portatrice di vita, la lettera può uccidere (La lettera uccide, lo Spirito dà vita, 2 Cor 3,6).
Il criterio pertanto che guida la comunità dei credenti è il bene dell'uomo come unico valore assoluto. Se al bene dell'uomo si sovrappone una dottrina, un dogma, una verità, prima o poi, inevitabilmente, in nome della dottrina si causerà sofferenza all'uomo.
È quel che comprese anche Paolo, il fariseo, l’insuperabile osservante della Legge (Fil 3,5), il quale, dopo un’iniziale feroce resistenza e offensiva contro la blasfema novità che gli faceva crollare tutto il suo mondo religioso, comprenderà e accoglierà la novità del Cristo, e farà di questa il filo conduttore del suo messaggio Se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove (2 Cor 5,17).
Le vecchie cose sono i criteri, i pensieri, le dottrine che regolavano il mondo. Ormai questi sono morti, e sono stati sostituiti dalle cose nuove, da modelli di pensiero e di vita che hanno quale punto dinamico di partenza il Cristo, il Dio che in Gesù è diventato uomo: l’umanità del Cristo è la stella polare che deve orientare l’esistenza del credente, conducendolo verso la creazione di un mondo progressivamente sempre più umano, dove la dignità, la libertà, la diversità di ogni creatura siano sacre e inviolabili.
Alberto Maggi
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Non si può mai uccidere in nome di Dio - di Enzo Bianchi
in “la Repubblica” del 19/11/2015
http://www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt201511/151119bianchi.pdf
«Utilizzare il nome di Dio per giustificare la strada della violenza e dell’odio è una bestemmia». Queste parole forti di papa Francesco, pronunciate all’indomani della carneficina di Parigi, «inqualificabile affronto alla dignità della persona umana», continuano a risuonare con forza in queste ore in cui la strada perversa che «non risolve i problemi dell’umanità» sembra ormai l’unica che troppi hanno deciso di intraprendere. Da più parti si sono levati appelli pacati alla fermezza e al non arrendersi alla brutalità disumana, continuando in una vita quotidiana che non si lascia attanagliare dalla paura, che coltiva amicizie, fraternità, normalità di rapporti in quella che definiamo una convivenza civile e che è frutto maturato anche sulle macerie della seconda guerra mondiale.
Eppure qualcosa suona tragicamente stonato in questo coro di dignitosa fermezza di fronte al male: è il fragore delle bombe che prima e dopo i drammatici fatti di Parigi cadono ogni giorno sulla popolazione in Siria, senza distinzione tra civili, combattenti, terroristi; è l’impercettibile sussurro che sui media occidentali riporta le vittime di attentati sanguinosi a Beirut; è l’impalpabile silenzio che avvolge le origini dei gruppi terroristici, le loro fonti passate e presenti di approvvigionamento di denaro e armamenti... Sì, se rispondiamo all’odio con l’odio, se pensiamo di sconfiggere la violenza con una violenza più forte, se riteniamo che la guerra sia la risposta giusta ad atti che hanno come scopo proprio quello di trascinarci in guerra, allora hanno già vinto loro.
Da anni, almeno dall’apocalisse dell’11 settembre, le più alte autorità delle diverse religioni, vanno ripetendo con forza che non si può uccidere in nome di Dio, che chi si appella a Dio per giustificare il male assoluto che compie bestemmia il Dio che invoca. Eppure si fa strada con sempre maggior chiarezza una verità scomoda che nessuno grida: chi uccide così brutalmente degli esseri umani lo fa sì in nome di dio, ma di un dio che non è invocato in nessuna preghiera. Quel dio in nome del quale si combattono guerre spietate si chiama denaro. Un dio che regola il commercio delle armi e il contrabbando del petrolio, inquina gli affari di troppe banche e corrompe troppe persone al potere, condiziona rapporti diplomatici e perverte prospettive di crescita e di sviluppo, sfrutta, consuma e uccide il pianeta e quanti vi abitano. Arrendersi a questo dio e alla sua capacità di seduzione, rispondere al male con il male, alla morte sofferta con la morte inflitta significherebbe che hanno già vinto loro, le forze del male.
Ma allora, come si esce da questa spirale di violenza? Con l’arrendevolezza, la pusillanimità, la rassegnazione? No di certo, ma con la forza, la risolutezza, la tenacia di chi si oppone al male con il bene, di chi tesse ogni giorno la tela dell’umanità e della fraternità. L’ora degli operatori di pace non conosce stagioni: sono chiamati a lavorare nei giorni e nei luoghi tranquilli così come nelle zone e nei tempi di guerra; per loro non c’è corsa alle armi perché non stanno mai fermi con le loro mani e i loro cuori disarmati. Ingenui buonisti? Ma nella storia sono proprio gli operatori di pace a essersi rivelati portatori di speranza e realizzatori di utopie, a differenza di quanti si ritenevano realisti e spietati ed erano osannati per la loro carica di rabbia, per l’orgogliosa pretesa di spegnere un fuoco con un incendio ancora più grande. Ci vuole infatti molto più coraggio a lottare incessantemente per tutta una vita con la forza disarmata della ragione che a svuotare in un minuto il caricatore di un’arma automatica, a indossare un’unica volta un giubbotto esplosivo o a premere in un batter d’occhio il bottone di sganciamento di una bomba. E ci vuole più coraggio ad affermare con coerenza e responsabilità le proprie convinzioni di pace e a tradurle in azioni concrete che a gettare irresponsabilmente benzina sul fuoco della frustrazione e della paura con parole che uccidono come pietre.
La risposta al terrorismo non è e non può essere implementare o esportare il terrore: può solo essere rinsaldare la nostra intima resistenza al male, lavorare per la verità e la giustizia, costruire la pace anche al cuore delle macerie di guerra. Ma per credere veramente nell’umanità, occorre ascoltare la ragione, impegnarsi nel dialogo, restare miti ricercatori della pace. Se non ora, quando?
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Laudato Si’- capitolo I – MEIC 10/11/2015 – Carlamaria Cannas
Voglio iniziare con una citazione dall'enciclica che chiarisce subito le posizioni del Papa: Oggi non possiamo fare a meno di riconoscere che un vero approccio ecologico diventa sempre un approccio sociale, che deve integrare la giustizia nelle discussioni sull’ambiente, per ascoltare tanto il grido della terra quanto il grido dei poveri. (49)
Se leggiamo senza pregiudizi l’esortazione apostolica Evangelii Gaudium e l’enciclica Laudato Si’ ci accorgiamo che non dicono molto di nuovo dal punto di vista dottrinale. Anche per questi documenti, così come per la Rerum Novarum e le altre encicliche sociali, si può infatti dire che la Chiesa persevera nel suo mandato di testimoniare i principi che i politici cristiani dovrebbero rispettare per poi, com'è giusto, lasciare a ciascuno le proprie responsabilità. (Anche se, com'è noto, nella storia recente la Chiesa ha ritenuto di dover intervenire in maniera più pressante su argomenti come la difesa della vita e della famiglia tradizionale).
Come mai allora questi due testi hanno suscitato tante reazioni, spesso scomposte? Molti si sono irritati perché un papa, che come tale non ha alcun titolo specifico o autorità dottrinale per parlare di ecologia e simili, si è avventurato a esprimere giudizi sferzanti su questo terreno: non avrebbe fatto meglio a stare zitto e a parlare solo di fede?
L'irritazione svela il pregiudizio che la genera, perché non risulta che questi stessi critici abbiano mai obiettato a che un clero composto unicamente da maschi celibi per vocazione decida irrevocabilmente su famiglie e sessualità. Probabilmente per questo tipo di critici il come i cristiani abitino il mondo non è argomento che riguardi il Papa e la fede cristiana è solo una facciata per giustificare e mantenere i propri privilegi.
Le reazioni più sguaiate sono venute infatti da taluni ambienti cattolici statunitensi, legati all'1% più ricco. Tanto per fare un solo esempio: il commentatore televisivo Greg Gutfeld, star della rete americana Fox News (che appunto dell'1% è espressione), ha affermato che "Il pontefice è l'uomo più pericoloso del mondo", aggiungendo irritato che “Gli mancano solo i capelli rasta e un cane con la bandana e può andare a manifestare a Wall Street”. Il video ha fatto il giro del mondo suscitando reazioni di vario tipo, dall’approvazione incondizionata a una risata amara.
Tuttavia non c'è ragione di sentirsi amareggiati, perché reazioni come quella di Gutfeld sono tanto ovvie quanto naturali: esprimono la rabbia di coloro ai quali papa Francesco ha tolto qualunque alibi perché la semplicità del suo linguaggio, privo di curialismi o di eufemismi, non lascia la possibilità di fraintendimenti. La dottrina non è cambiata ma è espressa in un linguaggio talmente chiaro che si potrebbe sintetizzare così l’enciclica: “Avviso ai naviganti: ci stiamo coscientemente suicidando, fisicamente e moralmente. Fermiamoci, riflettiamo e dialoghiamo.” Un linguaggio che ci permette di rivendicare, con Christine Pedotti, redattrice della rivista Temoignage Chretien, "Grazie a Dio, questo papa è pericoloso!" (temoignagechretien.fr, 23 giugno 2015).
Ed è davvero un Papa pericoloso per quelli che considerano la religione un fattore di mantenimento dell'attuale ordine sociale ed economico e guarda con allarme a qualunque innovazione possa mettere in pericolo i propri privilegi. Ad esempio, come dice sempre la Pedotti, per quelli che, essendo maschi, bianchi, ricchi e viaggiando su smisurati fuoristrada, ritengono di essere al vertice della scala sociale per diritto divino. Per la chiarezza del suo linguaggio, pur non essendo particolarmente innovatrice sul piano dottrinale, la Laudato Si' disturba gravemente chi ritiene benedetto dalla Provvidenza solo l'ordine sociale ed economico che gli conviene.
Quando Francesco ricorda che la fraternità è necessariamente “integrale” e significa abolizione dei privilegi, la sue frasi rischiano di far molto, molto male a chi si sente messo in discussione nelle sue certezze di privilegiato. Anche perché nel capitolo introduttivo della Laudato Si' Francesco, quasi a rispondere a critiche già messe in preventivo, cita il programma del suo pontificato, l’Evangelii Gaudium, ma anche gli insegnamenti dei quattro pontefici che l’hanno preceduto e del Patriarca ortodosso Bartolomeo. E infine, last but not least, come dicono gli inglesi, cita San Francesco d’Assisi. Come dire che si può certo dissentire da quello che dice Papa Francesco, ma facendolo si sceglie di mettersi fuori dall'intera tradizione della Chiesa.
A riprova del peso degli interessi economici in gioco nell'intero dibattito sull'enciclica si può guardare ad essa dal lato di chi attacca sistematicamente ogni cosa detta o fatta da Francesco. Come rimarca tra gli altri Paolo Rodari, vaticanista di Repubblica, le recentissime polemiche sul Sinodo sono fatte da avversari ideologici che chiamano Francesco "il Papa argentino" per screditarlo e per rimarcare la distanza fra loro e lui. Tra di essi ci sono cardinali di curia e vescovi, ma non solo: ci sono anche, e soprattutto, i gruppi economici e di potere che dal magistero sociale di questo Pontefice si sentono danneggiati.
Per spiegare che c'è in corso una battaglia ideologica senza quartiere contro Papa Francesco, Rodari si appoggia al lavoro investigativo di Nello Scavo, giornalista di Avvenire e autore di un libro appena uscito, "I nemici di Francesco" (Piemme). Da esso cita ad esempio la vicenda di un progetto di costituzione da parte dello Ior di un fondo di investimento in Lussemburgo. Il progetto prevedeva che il Vaticano si comportasse come la Goldman Sachs o le altre banche d'affari andando alla ricerca del proprio profitto senza badare alle conseguenze sugli altri. Il Papa se ne accorse all'ultimo momento e lo bloccò.
Certo, non sarebbe stato niente di illegale, ma l'immagine del Papa difensore dei poveri ne sarebbe uscita a mal partito. Difficile pensare che il cardinale australiano George Pell, colui che ha consegnato, e con ogni probabilità ideato, la lettera dei 13 al Papa di critica sui lavori del Sinodo non sapesse niente di questo progetto. Soprattutto perché, come nota Scavo nel suo volume, Pell, Prefetto della Segreteria per l'Economia della Santa Sede, si muove in un ambiente di potere che è quello della finanza americana. Ed è quindi naturale che a sostenere le battaglie dei "neocon" anti-Bergoglio ci siano uomini come Dick Cheney e multinazionali come la Halliburton. Bastano questi due nomi, dice Rodari, per farsi un'idea della rilevanza economica degli interessi che la Laudato Si' ha toccato e quindi della motivazione degli attacchi a Bergoglio.
Ma l'evidenza della motivazione economica di questi attacchi è anche prova della loro pretestuosità. Perché la Laudato Si' non fornisce soluzioni, dichiaratamente non è il suo compito, ma mette davanti all’umanità e al singolo i problemi che un antropocentrismo egoista (deviato, dice Francesco) sta generando nel creato: il creato non è altro da noi, dice Francesco, tutto nel mondo è intimamente connesso e di tutto siamo corresponsabili.
Fin dall'introduzione sono chiari gli assi portanti dell’enciclica: la fragilità del pianeta e la condizione dei poveri in un mondo così fragile. L'enciclica critica la tendenza a ridurre ogni problema a una questione tecnologica, e ogni problema tecnologico a una mera questione di potere. Di qui l'invito a pensare scenari di progresso e sviluppo dell’economia che rispettino l'ambiente e il valore proprio di ogni creatura, temi che dovrebbero essere centrali in ogni politica internazionale o locale che si ponga al servizio del bene comune.
Se ricordiamo l'Evangelii Gaudium, e i suoi perentori no all’idolatria del denaro, al denaro che uccide, all’ingiustizia generatrice di violenza e ad una economia di esclusione, ci rendiamo conto della continuità di pensiero che la Laudato Si' rappresenta nel pontificato di papa Francesco.
È questa continuità che fa emergere l'attualità del Vangelo in maniera ancora più chiara che nel passato. Ad esempio (par. 59): «Se guardiamo in modo superficiale, al di là di alcuni segni visibili di inquinamento e di degrado, sembra che le cose non siano tanto gravi e che il pianeta potrebbe rimanere per molto tempo nelle condizioni attuali. Questo comportamento evasivo ci serve per mantenere i nostri stili di vita, di produzione e di consumo. E’ il modo in cui l’essere umano si arrangia per alimentare tutti i vizi autodistruttivi: cercando di non vederli, lottando per non riconoscerli, rimandando le decisioni importanti, facendo come se nulla fosse».
Se confrontiamo l’ultima frase con Mt 5,1-12 sembra di leggere un elenco di contro-beatitudini, cioè di comportamenti che anziché renderci beati ci autodistruggono.
La Laudato Si' è quindi il primo passo operativo del programma di Papa Francesco per una Chiesa capace di testimoniare il Vangelo nella sua interezza. Il secondo, appena concluso, è il Sinodo della famiglia. Viste le reazioni si potrebbe avere l’impressione che con queste due iniziative il Papa abbia dichiarato guerra ai suoi oppositori, interni ed esterni alla Chiesa: si può anche dirlo in senso metaforico, ma il linguaggio di Papa Francesco si rifà al Vangelo, e il linguaggio del Vangelo è A riprova del peso degli interessi economici in gioco nell'intero dibattito sull'enciclica si può guardare ad essa dal lato di chi attacca sistematicamente ogni cosa detta o fatta da Francesco. Come rimarca tra gli altri Paolo Rodari, vaticanista di Repubblica, le recentissime polemiche sul Sinodo sono fatte da avversari ideologici che chiamano Francesco "il Papa argentino" per screditarlo e per rimarcare la distanza fra loro e lui. Tra di essi ci sono cardinali di curia e vescovi, ma non solo: ci sono anche, e soprattutto, i gruppi economici e di potere che dal magistero sociale di questo Pontefice si sentono danneggiati.Per spiegare che c'è in corso una battaglia ideologica senza quartiere contro Papa Francesco, Rodari si appoggia al lavoro investigativo di Nello Scavo, giornalista di Avvenire e autore di un libro appena uscito, "I nemici di Francesco" (Piemme). Da esso cita ad esempio la vicenda di un progetto di costituzione da parte dello Ior di un fondo di investimento in Lussemburgo. Il progetto prevedeva che il Vaticano si comportasse come la Goldman Sachs o le altre banche d'affari andando alla ricerca del proprio profitto senza badare alle conseguenze sugli altri. Il Papa se ne accorse all'ultimo momento e lo bloccò. Certo, non sarebbe stato niente di illegale, ma l'immagine del Papa difensore dei poveri ne sarebbe uscita a mal partito. Difficile pensare che il cardinale australiano George Pell, colui che ha consegnato, e con ogni probabilità ideato, la lettera dei 13 al Papa di critica sui lavori del Sinodo non sapesse niente di questo progetto. Soprattutto perché, come nota Scavo nel suo volume, Pell, Prefetto della Segreteria per l'Economia della Santa Sede, si muove in un ambiente di potere che è quello della finanza americana. Ed è quindi naturale che a sostenere le battaglie dei "neocon" anti-Bergoglio ci siano uomini come Dick Cheney e multinazionali come la Halliburton. Bastano questi due nomi, dice Rodari, per farsi un'idea della rilevanza economica degli interessi che la Laudato Si' ha toccato e quindi della motivazione degli attacchi a Bergoglio.Ma l'evidenza della motivazione economica di questi attacchi è anche prova della loro pretestuosità. Perché la Laudato Si' non fornisce soluzioni, dichiaratamente non è il suo compito, ma mette davanti all’umanità e al singolo i problemi che un antropocentrismo egoista (deviato, dice Francesco) sta generando nel creato: il creato non è altro da noi, dice Francesco, tutto nel mondo è intimamente connesso e di tutto siamo corresponsabili.Fin dall'introduzione sono chiari gli assi portanti dell’enciclica: la fragilità del pianeta e la condizione dei poveri in un mondo così fragile. L'enciclica critica la tendenza a ridurre ogni problema a una questione tecnologica, e ogni problema tecnologico a una mera questione di potere. Di qui l'invito a pensare scenari di progresso e sviluppo dell’economia che rispettino l'ambiente e il valore proprio di ogni creatura, temi che dovrebbero essere centrali in ogni politica internazionale o locale che si ponga al servizio del bene comune.Se ricordiamo l'Evangelii Gaudium, e i suoi perentori no all’idolatria del denaro, al denaro che uccide, all’ingiustizia generatrice di violenza e ad una economia di esclusione, ci rendiamo conto della continuità di pensiero che la Laudato Si' rappresenta nel pontificato di papa Francesco. È questa continuità che fa emergere l'attualità del Vangelo in maniera ancora più chiara che nel passato. Ad esempio (par. 59): «Se guardiamo in modo superficiale, al di là di alcuni segni visibili di inquinamento e di degrado, sembra che le cose non siano tanto gravi e che il pianeta potrebbe rimanere per molto tempo nelle condizioni attuali. Questo comportamento evasivo ci serve per mantenere i nostri stili di vita, di produzione e di consumo. E’ il modo in cui l’essere umano si arrangia per alimentare tutti i vizi autodistruttivi: cercando di non vederli, lottando per non riconoscerli, rimandando le decisioni importanti, facendo come se nulla fosse».Se confrontiamo l’ultima frase con Mt 5,1-12 sembra di leggere un elenco di contro-beatitudini, cioè di comportamenti che anziché renderci beati ci autodistruggono.La Laudato Si' è quindi il primo passo operativo del programma di Papa Francesco per una Chiesa capace di testimoniare il Vangelo nella sua interezza. Il secondo, appena concluso, è il Sinodo della famiglia. Viste le reazioni si potrebbe avere l’impressione che con queste due iniziative il Papa abbia dichiarato guerra ai suoi oppositori, interni ed esterni alla Chiesa: si può anche dirlo in senso metaforico, ma il linguaggio di Papa Francesco si rifà al Vangelo, e il linguaggio del Vangelo è contro gli errori, non contro le persone.
Il Vangelo è un annuncio di misericordia, e Papa Francesco ha appunto indetto l'Anno Santo della misericordia.
Tuttavia le persone che si sentono toccate nei propri interessi reagiscono come a una dichiarazione di guerra. E talvolta hanno gioco facile nel fare affermazioni categoriche di ripudio dell’enciclica, perché purtroppo la media delle persone non si informa se non attraverso giornali e TV, e non possiamo dire che questi mezzi di comunicazione siano sempre obiettivi e indipendenti.
L’aver definito la Laudato Si' “una enciclica ecologica” è un evidente tentativo, maldestro, a mio modo di vedere, di sminuirne la portata e il significato. Ma è anche attraente nella sua rozza semplificazione per i molti che non leggono o che non vogliono o non hanno i mezzi per capire. L’enciclica è invece un testo che sin dal titolo del primo capitolo, QUELLO CHE STA ACCADENDO ALLA NOSTRA CASA, punta il dito sulle conseguenze sociali, economiche ed ambientali che derivano dall'abbandono, anche da parte di cattolici dichiarati, dei principi del Vangelo: ad esempio vengono messe in risalto la crescente povertà dei diseredati della Terra, l’abbassamento del livello dei redditi della classe media che in molti casi sfiora la soglia di povertà, un’economia che si pone al servizio del denaro e non della giustizia sociale.
Questi sono argomenti comuni a tutti i capitoli, ma il tema di stasera è solo il primo capitolo. Prima di procedere nell’analisi dettagliata di questo capitolo possiamo notare che l’enciclica è stata letta a diversi livelli:
- un livello minimo e superficiale che nota solo che si parla di problemi ambientali e di inquinamento. Di conseguenza si accusa il papa di occuparsi di problemi non suoi e si decide che nell’enciclica Dio viene nominato troppo poco. Quindi non varrebbe la pena di spendere tempo e parole per commentarla, perché non dice nulla di nuovo sulle sole cose che contano.
- un secondo livello di chi continua a vedere come predominante nell'enciclica il problema ambientale ma non può evitare di prender nota delle critiche che vengono fatte all'attuale struttura sociale ed economica. È il livello di lettura di coloro che nell'attuale situazione prosperano e si sentono quindi punti nel vivo dalle critiche al sistema. Da questa lettura derivano le accuse più aspre di ignoranza, che spesso inventano un ipotetico appiattimento di Francesco su studi catastrofisti considerati privi di validità.
- un terzo livello che prende nota dei riferimenti alla dottrina sociale della Chiesa e a documenti e dichiarazioni di pontefici precedenti, ma non riesce a vedere gli sviluppi pastorali che l’enciclica introduce. Di qui le accuse al papa di ideologismo marxista, perché osa ribadire che il creato è di tutti e che il privilegio di pochi (quel 1% della popolazione più ricca) è una offesa (bestemmia) a Dio e al modo cristiano di leggere il mondo.
- infine un quarto livello che legge l'enciclica senza pregiudizi ed è attento a tutti i suoi aspetti. È il livello di chi, cristiano o no, considera la “cura della casa comune” un problema dell’umanità intera risolvibile solo con la rinuncia a un’idea di progresso che ignora volutamente ogni aspetto di condivisione e di solidarietà.
La Laudato Si' può essere letta correttamente e con profitto solo a quest'ultimo livello, perché solo così si può cogliere l'importanza dell'invito del par. 22 a superare l'attuale imperante cultura dello scarto di esseri umani e cose. Si dice chiaramente che sistemi industriali che non sviluppano la capacità di assorbire e riutilizzare rifiuti e scorie finiscono per danneggiare il pianeta intero e non sono in grado di assicurare risorse per tutti e per le generazioni future. Vanno pertanto giudicati inadeguati, per quanto successo possano avere nel portare ricchezza a minuscoli strati della popolazione (ovviamente a danno di tutti gli altri).
Vediamo subito che il parlare di un’enciclica semplicemente ecologica, quindi non riguardante la Chiesa, sembra prendere lo spunto proprio solo dai titoli e sottotitoli del primo capitolo ma non dalla reale lettura dei suoi contenuti. Effettivamente l'elenco dei titoli di questo capitolo lascia pensare a una sorta di manifesto ecologico: infatti dopo alcuni paragrafi introduttivi abbiamo
- Inquinamento e cambiamenti climatici - par 20-26 (inquinamento, rifiuti e cultura dello scarto; il clima come bene comune);
- La questione dell’acqua - par 27-31;
- Perdita di biodiversità – par 32-42;
- Deterioramento della qualità della vita umana e degradazione sociale – par 43-47;
- Inequità planetaria – par 48-52;
- La debolezza delle reazioni – par 53-59;
- Diversità di opinioni – par 60-61.
Basta però cominciare a leggere il testo per capire che le cose non stanno così, che non siamo in presenza di un manifesto ecologico. L'enciclica parla di ecologia solo per mostrare quello che la piccola parte di umanità che possiede la maggior parte dei beni sta combinando a ‘sora nostra madre terra’, per dirla con Francesco d'Assisi. Dopo aver constatato la continua accelerazione dei cambiamenti dell’umanità e del pianeta, cambiamenti che oggi sono diventati troppo veloci rispetto ai ritmi naturali dell’evoluzione biologica, Papa Francesco sottolinea che gli obiettivi di questo cambiamento "non necessariamente sono orientati al bene comune e a uno sviluppo umano, sostenibile e integrale". Per il Papa il cambiamento è quindi accettabile solo se non porta al "deterioramento del mondo e della qualità della vita di gran parte dell’umanità" (18). È quindi chiaro che l'enciclica parla di ecologia nel quadro della riaffermazione dell'insegnamento sociale tradizionale della Chiesa.
Al tempo stesso, però, questo insegnamento non è solo ripetuto ma è sviluppato in maniera da individuare un percorso che ci permetta di abbandonare una "fiducia irrazionale nel progresso e nelle capacità umane" per "prendere dolorosa coscienza ... [di] quello che accade nel mondo e così riconoscere qual è il contributo che ciascuno può portare".(19)
A questo punto possiamo già individuare che cosa ha in mente il Papa: ci parla di percorso, di prendere coscienza, e ci rendiamo conto che lo scopo dell’enciclica è quello di cambiare la attuale relazione dell’umanità col resto del creato. Non si deve buttar via la scienza, ma contestare quell’idea di onnipotenza del progresso tecnologico che di fatto permette a chi possiede le ricchezze di sfruttarle per dominare sul resto del mondo, umano, animale, vegetale o inanimato che sia. In parole povere il Papa contesta l’essersi fatti un idolo del profitto in nome del progresso, che così non è diverso da mammona.
Riflettiamo bene su queste due affermazioni, che sono due schiaffi a modi di pensare molto diffusi:
- gli obiettivi non necessariamente sono orientati al bene comune e a uno sviluppo umano, sostenibile e integrale
- fiducia irrazionale nel progresso e nelle capacità umane.
Il Papa non si nasconde dietro frasi di ambigua interpretazione, ma dice che chi si riempie la bocca di “bene comune” spesso persegue obiettivi che sarebbe meglio chiamare “bene di pochi”. E dopo aver parlato di inquinanti atmosferici e del suolo e dell’acqua, aggiunge: "La tecnologia che, legata alla finanza, pretende di essere l’unica soluzione dei problemi ... a volte risolve un problema creandone altri".(20)
E nel paragrafo successivo, dopo aver parlato della produzione di rifiuti, "Molte volte si prendono misure solo quando si sono prodotti effetti irreversibili per la salute delle persone".(21)
C’è una frase, in questo stesso paragrafo, che mi ha fatto immediatamente ricordare una canzone di Francesco (anche lui!) Guccini, intitolata ‘Il vecchio e il bambino’. La frase è: "In molti luoghi del pianeta, gli anziani ricordano con nostalgia i paesaggi d’altri tempi, che ora appaiono sommersi da spazzatura". Quest'immagine non vi ricorda quella della canzone, col nonno che racconta al bambino che una volta nello spazio che hanno davanti c’erano prati, alberi, ‘e tutto era verde’? E il bambino della canzone che commenta con occhi sognanti “mi piaccion le fiabe, raccontane altre” non vi ricorda la nostra condizione di vittime innocenti (vale per quelli che lo sono) di una tecnologia onnipotente? Che la sensibilità di un poeta ateo risuoni con quella del papa mi pare indicativo della capacità di questo Papa di farsi intendere ben al di là degli ambiti puramente confessionali. (lo stesso paragone l'ho poi ritrovato su Civiltà cattolica).
L'enciclica dice chiaramente che le gravi implicazioni ambientali, sociali, economiche, distributive e politiche dei cambiamenti climatici vanno affrontate facendo appello alla responsabilità di tutti perché il clima è un bene comune, di tutti e per tutti. Il Papa parla in dettaglio del riscaldamento globale e delle sue conseguenze ma lo fa per dare concretezza al suo discorso non per sancire la verità di una particolare interpretazione. Nessuno può far finta di non vedere ciò che avviene e l’intera umanità è chiamata a prendere coscienza della necessità di farvi fronte, anche a costo di cambiamenti importanti negli stili di vita, di produzione e di consumo (23). Quando ci si trova di fronte alle folle di migranti che quest’estate e ancora in questi giorni occupano con la loro situazione le cronache di giornali e TV, e si assiste senza reagire alle arroganti prese di posizione di politici nostrani, ed europei in generale, che non riconoscono ai migranti "economici" neanche la possibilità di essere riconosciuti meritevoli di asilo politico, si vien meno, dice Francesco, al messaggio cristiano.
Il nocciolo del problema è tutto qui: da "buoni" cristiani non riconosciamo la fame, spesso da noi provocata, come motivo di accoglienza; lasciamo che tanti muoiano di fame per la nostra paura di perdere qualcosa che, ovviamente in termini generali riferiti al mondo occidentale, abbiamo “rubato”. C’è una generale indifferenza di fronte a queste tragedie e anzi, dice Francesco, "Molti di coloro che detengono più risorse e potere economico o politico sembrano concentrarsi soprattutto nel mascherare i problemi o nasconderne i sintomi". La conclusione è che "La mancanza di reazioni di fronte a questi drammi dei nostri fratelli e sorelle è un segno della perdita di quel senso di responsabilità per i nostri simili su cui si fonda ogni società civile".
Possiamo dichiararci in disaccordo? Sì, certamente, se siamo tra quelli che traggono i loro profitti dalle condizioni elencate. Ma in realtà lo siamo in pratica anche noi nel nostro piccolo quando pensiamo che questi siano problemi che non ci riguardano e facciamo spallucce.
L’enciclica affronta problemi specifici come la questione dell’acqua (27-31), la perdita di biodiversità (32-42), il deterioramento della qualità della vita umana (43-47). Bene o male tutti sappiamo che l’acqua potabile è essenziale, che la perdita della biodiversità è un danno per tutta la collettività, che non badare a questioni come queste porta a un degrado generale. Da questo punto di vista il Papa non aggiunge niente a quel che una persona minimamente informata non sappia o su cui non possa documentarsi. Ma tutti questi problemi non sono altro che aspetti diversi di un unico problema: l’impossibilità per il pianeta di sostenere il livello di consumo raggiunto nei Paesi più sviluppati e in particolare dei loro settori più ricchi.
L’abitudine di sprecare e buttar via raggiunge livelli inauditi. Questo fatto è di per sé non solo un sintomo di degrado morale ma anche di miopia, per non dire di cecità, politica. L’economia e l’attività commerciale e produttiva sono infatti troppo legate al risultato immediato e non si vuol vedere, ad esempio, che il controllo dell’acqua da parte delle grandi multinazionali è diventato una delle principali cause di conflitto in questo secolo (31). Tutti sappiamo, magari ricordando quando non molti anni fa l’acqua di Cagliari e della Sardegna era razionata, quali disagi provoca la scarsezza dell’elemento essenziale per la vita, e ci arrabbiamo se per qualche causa contingente la nostra acqua per breve tempo risulta non potabile. Ma in molti luoghi della Terra questa condizione di emergenza è ormai la regola; inoltre assai spesso l'acqua oltre che scarsa non è potabile: ricordate quanti bambini sono morti perché il latte in polvere che avrebbe dovuto salvarli veniva preparato con acqua non potabile?
Leggendo il primo capitolo si osserva che Francesco va diritto alle cause del degrado, senza sconti per nessuno, e infatti non punta il dito solo sui paesi sviluppati ma evidenzia come il problema dell’uso e dello sfruttamento delle risorse sia dovunque un problema educativo e culturale a tutti i livelli, anche nelle nazioni sottosviluppate. Viviamo in un mondo globale in cui tutto è focalizzato alla produttività a tutti i costi, la scuola e la casa non sono altro che aziende, i rapporti umani sono ridotti e sviliti a rapporti finanziari, gli studi umanistici vengono derisi perché “non danno da mangiare e chi li fa poi pesa sulla società”. Produrre, produrre, fare soldi è l'unica cosa che conta. Se qualcuno non ce la fa è colpa sua, va scartato (penso che di questi tempi chi fa lavoro intellettuale in campo umanistico possa anche lui in qualche modo entrare nel discorso di Francesco sugli scarti).
Andiamo avanti; ora si parla di eco e geosistemi, e si nota che l’intervento umano, spesso al servizio della finanza e del consumismo, anziché risolvere finisca col creare sempre nuovi problemi. Mi colpisce in particolare il grido di dolore sul nostro contributo alla scomparsa di specie vegetali e animali. Dice Francesco "Non ne abbiamo il diritto".
Viene costantemente messo in evidenza il ruolo degli interessi finanziari nel cercare sempre un profitto immediato, nella logica del volere tutto e subito. Se poi qualcuno, (ma non noi) ci va di mezzo beh, pazienza, è la logica del profitto. Ricordate dall’Evangelii gaudium che per Francesco il tempo è superiore allo spazio e che la realtà supera l’idea? Bene, quanto è scritto nella Laudato Si' sugli eco e geo sistemi è una esemplificazione di quei concetti. Da molti, soprattutto da ambientalisti e studiosi delle scienze della natura, viene fatto rilevare il legame tra tutti gli esseri viventi in una catena che va dai microorganismi a noi uomini, ma credo che veramente poche persone abbiano mai pensato a tutte le altre specie come a qualcosa da salvaguardare. Come dice Francesco ci turbiamo per la morte di un leone, di un uccello, ma non ci accorgiamo nemmeno del rischio di sparizione di organismi essenziali per l’ecosistema globale. Con la scusa del progresso si sfrutta e si distrugge, per un fittizio benessere momentaneo, tutto quel che è possibile.
Che ci siano persone a cui questa chiarezza di parola del Papa non vada bene è abbastanza noto. Ma è interessante vedere fino a che punto, per difendere interessi dell'industria locale, si può arrivare nella polemica antipapale. Come esempio, ma ce ne sono tanti altri, vi riporto dal sito Vaticaninsider le reazioni all'enciclica di un giornale polacco, Rzeczpospolita. Già all'annuncio dell’enciclica il giornale preavvisava i lettori che si trattava di un'enciclica anti-polacca. Poi, dopo averla letta, fa notare che il Papa argentino, aderendo a una diffusa moda radical chic, usa nel suo documento la retorica tipica di Greenpeace e altre organizzazioni ecologiste, e tratta i loro argomenti come verità rivelate. In più, nota il giornale, in un futuro non lontano questo tipo di narrazione potrebbe rivelarsi un falso allarme e allora che si farà? Rzeczpospolita si straccia poi le vesti perché il Successore di Pietro preferisce occuparsi di problemi che per la Chiesa sono marginali, e conclude che evidentemente le sofferenze delle persone per le quali “Dio è morto” non meritano da parte della Santa Sede maggiore attenzione dei gemiti della madre terra di cui parla la Laudato Si’. A me pareva che Francesco avesse invece molto a cuore proprio le sofferenze delle persone, comprese le sofferenze derivate dai danni all'ambiente causati dalle miniere di carbone, ma a quanto pare sbagliavo. Naturalmente che la Polonia abbia il primato europeo per lo sfruttamento delle miniere di carbone e per l’inquinamento dovuto all’emissione di CO2 è una circostanza puramente accidentale.
Le reazioni leghiste agli sbarchi, il successo mediatico di personaggi squallidi, ma molto molto ricchi, come Donald Trump, il repubblicano candidato alla presidenza degli Stati Uniti, la ricerca ossessiva e frustrante di ciò che la pubblicità fa sfavillare davanti ai nostri occhi, sono a mio avviso gli esempi più efficaci per chiarirci le idee, se ancora avessimo dubbi, sulla giustezza di queste frasi dell’enciclica: « ... si sono creati quartieri residenziali “ecologici” solo a disposizione di pochi, dove si fa in modo di evitare che altri entrino a disturbare una tranquillità artificiale. Spesso si trova una città bella e piena di spazi verdi ben curati in alcune aree “sicure”, ma non altrettanto in zone meno visibili, dove vivono gli scartati della società»(45). E poi ancora: « ... la crescita degli ultimi due secoli non ha significato in tutti i suoi aspetti un vero progresso integrale e un miglioramento della qualità della vita. Alcuni di questi segni sono allo stesso tempo sintomi di un vero degrado sociale, di una silenziosa rottura dei legami di integrazione e di comunione sociale ... La vera sapienza, frutto della riflessione, del dialogo e dell’incontro generoso fra le persone, non si acquisisce con una mera accumulazione di dati che finisce per saturare e confondere, in una specie di inquinamento mentale. Nello stesso tempo, le relazioni reali con gli altri, con tutte le sfide che implicano, tendono ad essere sostituite da un tipo di comunicazione mediata da internet. (45-46)
Anche gli avvenimenti di questi ultimi tempi, ho scritto questa parte subito dopo la strage nel college dell’Oregon, non fanno che mostrare come sia fasulla l’idea di essere in contatto con tutti tramite i cosiddetti social media e di conseguenza di non fare parte degli ‘scarti’. La smania di avere notorietà su facebook o siti analoghi, il voler apparire ad ogni costo, con modi di essere e di agire spesso incompatibili con le giuste relazioni col resto degli esseri umani, sono il frutto di una cultura degradata, ridotta all'apparire, che, come dice Francesco, porta a profonde insoddisfazioni e in definitiva, ad un peggioramento della qualità della vita per tutti.
Mi sono chiesta che cosa si possa dire di più, in poco tempo, sul primo capitolo: il discorso è chiaro, il pensiero del Papa è espresso con tale semplicità e linearità da non aver bisogno di glosse. La cosa migliore mi è parsa scegliere quattro temi che a mio avviso rappresentano bene il messaggio del primo capitolo e su di essi lasciar parlare direttamente l'enciclica.
I quattro temi sono: gli esclusi, i condizionamenti internazionali, la disuguaglianza crescente e la finta ecologia. Ciò che li lega è il fatto che, poiché tutto è connesso, i più colpiti da qualunque tipo di degrado sono i più poveri e che spesso, nonostante il problema venga nominato in congressi internazionali, assemblee ecc., non si va più in là di belle parole. Siamo cioè consapevoli che la disuguaglianza cresce, ma è un problema che preferiamo guardare da lontano senza sporcarci le mani. Certo prima o poi faremo qualcosa, cioè fingeremo di venire incontro ai deboli e agli esclusi trovando nuove maniere per trarne profitto, faremo cioè un'ecologia finta.
Ed ecco cosa dice l'enciclica su questi quattro temi.
Sugli esclusi: «Spesso non si ha chiara consapevolezza dei problemi che colpiscono particolarmente gli esclusi. Essi sono la maggior parte del pianeta, miliardi di persone. Oggi sono menzionati nei dibattiti politici ed economici internazionali, ma per lo più sembra che i loro problemi si pongano come un’appendice, come una questione che si aggiunga quasi per obbligo o in maniera periferica, se non li si considera un mero danno collaterale. ... Ciò a volte convive con un discorso “verde”. Ma oggi non possiamo fare a meno di riconoscere che un vero approccio ecologico diventa sempre un approccio sociale, che deve integrare la giustizia nelle discussioni sull’ambiente, per ascoltare tanto il grido della terra quanto il grido dei poveri».(49)
Sui condizionamenti internazionali: «... Non mancano pressioni internazionali sui Paesi in via di sviluppo che condizionano gli aiuti economici a determinate politiche di “salute riproduttiva”. […]Si pretende così di legittimare l’attuale modello distributivo, in cui una minoranza si crede in diritto di consumare in una proporzione che sarebbe impossibile generalizzare, perché il pianeta non potrebbe nemmeno contenere i rifiuti di un simile consumo ... si spreca approssimativamente un terzo degli alimenti che si producono, e il cibo che si butta via è come se lo si rubasse dalla mensa del povero».(50)
Sulla disuguaglianza crescente: «C’è infatti un vero “debito ecologico”, ... l’enorme consumo di alcuni Paesi ricchi ha ripercussioni nei luoghi più poveri della terra ... A questo si uniscono i danni causati dall’esportazione verso i Paesi in via di sviluppo di rifiuti solidi e liquidi tossici e dall’attività inquinante di imprese che fanno nei Paesi meno sviluppati ciò che non possono fare nei Paesi che apportano loro capitale. ... Il debito estero dei Paesi poveri si è trasformato in uno strumento di controllo, ma non accade la stessa cosa con il debito ecologico. In diversi modi, i popoli in via di sviluppo, dove si trovano le riserve più importanti della biosfera, continuano ad alimentare lo sviluppo dei Paesi più ricchi a prezzo del loro presente e del loro futuro. […]Bisogna rafforzare la consapevolezza che siamo una sola famiglia umana. Non ci sono frontiere e barriere politiche o sociali che ci permettano di isolarci, e per ciò stesso non c’è nemmeno spazio per la globalizzazione dell’indifferenza».(51-52)
Su una finta ecologia: «... cresce un’ecologia superficiale o apparente che consolida un certo intorpidimento e una spensierata irresponsabilità. […]Se guardiamo in modo superficiale, al di là di alcuni segni visibili di inquinamento e di degrado, sembra che le cose non siano tanto gravi e che il pianeta potrebbe rimanere per molto tempo nelle condizioni attuali. Questo comportamento evasivo ci serve per mantenere i nostri stili di vita, di produzione e di consumo. E’ il modo in cui l’essere umano si arrangia per alimentare tutti i vizi autodistruttivi: cercando di non vederli, lottando per non riconoscerli, rimandando le decisioni importanti, facendo come se nulla fosse». (59)
Forse vi siete accorti che due di queste ultime citazioni le avevo già fatte all'inizio, ma mi pare che meritino di essere ripetute.
Il capitolo si chiude con una serie di osservazioni sulla diversità di opinioni. Francesco non obietta al fatto normale che su qualunque argomento ci possano e debbano essere opinioni differenti, ma lo fa con due frasi che devono aver imbarazzato non poco certi ambienti: «Su molte questioni concrete la Chiesa non ha motivo di proporre una parola definitiva e capisce che deve ascoltare e promuovere il dibattito onesto fra gli scienziati, rispettando le diversità di opinione. Basta però guardare la realtà con sincerità per vedere che c’è un grande deterioramento della nostra casa comune».
Non è che Francesco insinui che molti dibattiti, essendo fasulli, essendo cioè monologhi in cui ciascuno ribadisce e rimane fermo nelle proprie posizioni, sono disonesti? Queste due piccole parole dibattito onesto sono scottanti perché impegnano tutti noi cristiani a rinunciare a una presunta superiorità morale e a guardare invece il mondo dal punto di vista del Vangelo, cercare il bene di tutti.
Mi piace concludere con una citazione da un'omelia di Arturo Paoli di quasi otto anni fa, ripresa dal suo libro "Gridare il Vangelo con tutta la vita", edito a cura di Dino Biggio, 2015, Edizioni La Collina, che mi pare anticipi le intuizioni fondamentali che hanno portato Francesco alla Laudato Si': «Purtroppo oggi abbiamo dimenticato che la creazione è messa nelle nostre mani come dono di cui portiamo la responsabilità. Pertanto amare le cose, amare le piante, amare i fiori e la terra fa parte dell'etica cristiana. Quindi al di sopra delle leggi, prima delle leggi, c'è la grande legge di Dio che impone all'uomo di trattare con profondo rispetto la natura, perché essa non è mia, non posso possederla, non posso violarla, non posso asservirla ai miei interessi» (pag. 41).
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