Pedro Casaldáliga
Se perdere la speranza è un’eresia. Un omaggio a dom Pedro Casaldáliga
Claudia Fanti 22/10/2015 Tratto da: Adista Documenti n° 37 del 31/10/2015
DOC-2747. MADRID-ADISTA. È stato uno dei momenti più alti e più intensi del 35° Congresso di Teologia, promosso a Madrid, dal 10 al 13 settembre scorso, dall'Associazione dei Teologi e delle Teologhe Giovanni XXIII sul tema “Religioni: violenza e cammini di pace”: l'omaggio a dom Pedro Casaldáliga, l'ultimo di innumerevoli riconoscimenti tributati al vescovo, poeta e profeta, catalano di nascita, brasiliano di adozione e soprattutto patrimonio dell’intera umanità. Un omaggio che non poteva essergli reso senza richiamare le molte cause a cui dom Pedro ha totalmente dedicato la sua esistenza, come avevano ben capito i suoi amici, quando, in occasione dei suoi 80 anni, lo avevano voluto festeggiare con un libro straordinario, che parla di lui attraverso le sue lotte: Pedro Casaldáliga: le cause che danno senso alla sua vita. Ritratto di una personalità (v. Adista nn. 20, 32, 36, 50, 54 e 58/08). O come è chiaramente emerso dal film, uscito nel 2013, Descalzo sobre la Tierra Roja, che, tratto dall’omonimo libro di Françes Escribano del 2002, racconta la vita di dom Pedro seguendo il filo rosso delle cause per cui si è sempre speso. O come, infine, è tornato a fare il teologo e sacerdote spagnolo Benjamín Forcano, già tra i coordinatori del libro per gli 80 anni del vescovo, nella sua nuova opera, dal titolo Pedro Casaldáliga: Poeta, Místico y Profeta (Editorial Nueva Utopía, pagine 206, 12 euro; il libro, in lingua spagnola, può essere richiesto scrivendo a bforcanoc@gmail.com). Ed è stato proprio Forcano, tra gli altri, a esprimere il suo omaggio a dom Pedro durante il Congresso di Teologia, nell'intervento, tratto da Redes Cristianas (26/9), che vi proponiamo in una nostra traduzione dallo spagnolo.
Prigioniero del Vangelo
Benjamín Forcano 22/10/2015 Tratto da: Adista Documenti n° 37 del 31/10/2015
So, amici e amiche, che Pedro Casaldáliga non è uno sconosciuto per nessuno di voi. La sua opera è immensa e si presenta a noi come una parola di vita, di luce e di libertà, pienamente coerente con il Vangelo. Per questo, comprenderete che mi limiterò ad alcune pennellate sulla sua vita, che sicuramente risveglieranno l'interesse di chi vorrà decifrarne i segreti e in un certo modo assimilarne le intime ragioni, leggendo con calma i suoi scritti, molti, belli e stimolanti. Da parte mia, è quello che ho cercato di fare nel mio ultimo libro: Pedro Casaldáliga: Poeta, Místico y Profeta.
In occasione del suo 80° compleanno, volevamo raccogliere, in una breve sintesi, gli aspetti più importanti della sua vita. Ma sapevamo che Pedro era allergico a qualunque omaggio. «Parlare di me e della mia vita, no; parlare delle cause su cui ho centrato la vita, sì». «Perché – dice – le cause della mia vita valgono più della mia vita». «A volte – risponde a Françes Escribano in un'intervista – i giornalisti mi chiedono più della mia vita che delle mie cause. Significa restare in superficie. Io dico sempre, parafrasando Ortega y Gasset, che io sono io e le mie cause, e le mie cause valgono più della mia vita». «Le mie cause, e non solo mie – continua – sono: la terra, l'acqua, l'ecologia, le nazioni indigene, il popolo nero, la solidarietà, la vera integrazione continentale, lo sradicamento di ogni emarginazione, di ogni imperialismo, di ogni colonialismo, il dialogo interreligioso e interculturale, il superamento di questo stato di schizofrenia umano che è dato dall'esistenza di un primo mondo e di un terzo mondo (e anche di un quarto mondo), quando siamo un solo mondo, la grande famiglia umana, figli del Dio della vita».
LIBERI PER CREARE O SOTTOMESSI PER OBBEDIRE?
La mia conoscenza di Pedro Casaldáliga non è nuova né è nata casualmente. All'epoca, noi giovani clarettiani iniziammo a guardare a Pedro Casaldáliga come a qualcuno che portava aria di novità, di libertà e di militanza. Quando, nel 1952, Casaldáliga venne ordinato prete, aveva 24 anni e noi, che vivevamo il noviziato, lo seguivamo con appena sette anni di scarto. Ma, tra di noi, la persona di Pedro già svettava come modello e segno da seguire. Erano tempi di rinnovamento, fervevano ricchi di promesse i preparativi e poi le sessioni del Concilio Vaticano II (1962-1965), a Roma potevamo assistere alle conferenze e agli incontri con i giornalisti che i vescovi tenevano insieme ai loro periti. Noi, per quanto giovani, sentivamo il peso di una tradizione rigorosa, intessuta di idee e costumi diventati legge.
Proprio per questo, eravamo abbagliati dal Concilio e da quanti erano in prima linea sul fronte del rinnovamento. Sentivamo giunto il momento di un'altra Chiesa, di un altro stile di vita, di un'altra spiritualità, di un altro modo di stare in società. A partire dalla sua ordinazione sacerdotale, la figura di Pedro andò ingigantendosi in questo senso per oltre 15 anni, fino a compiere il suo passo definitivo in Mato Grosso, nel 1968.
Non sfoglierò il libro di quei 15 anni, da lui scritto giorno dopo giorno come animatore, conferenziere, direttore spirituale, confidente e consolatore di giovani, lavoratori, migranti e poveri a Sabadell, in Guinea Equatoriale, quando vi si recò per consolidare i Cursillos de Cristiandad, e poi a Barcellona, come animatore dei giovani, investito del cumulo di problemi della gente della periferia. E infine a Madrid, dove venne chiamato per dirigere con Mino Cerezo e Teófilo Cabestrero la rivista Iris de Paz (ribattezzata con il nome di Rivista di testimonianza e speranza) e dare impulso ad altre iniziative culturali e a movimenti sociali. Anni che culminano nel ‘68, con la celebrazione del Capitolo Generale della Congregazione Clarettiana per l'applicazione del Vaticano II.
Io ero già a Roma – ero arrivato nel '62 – dove mi stavo specializzando in Teologia Morale e dove seguivamo con passione le notizie del processo conciliare. All'interno del nostro Capitolo Generale si profilavano due tendenze, quella conservatrice e quella innovatrice, e alla guida della corrente per il rinnovamento c'era Casaldáliga, soprannominato il Che della Sierra Maestra clarettiana.
Questi anni non sono stati solo un preambolo della sua partenza per il Mato Grosso, quando Pedro decise di intraprendere un viaggio senza ritorno, tagliando i ponti e non mettendo mai più piede in Spagna. Neppure - e ho potuto dargli io la notizia - quando morì sua madre.
Penso che Pedro portasse inscritta nella sua anima la rotta da seguire e albergasse la disposizione richiesta, per poi, una volta lì, approfondirla, viverla e farla valere contro ogni corrente.
GESÙ DI NAZARETH: VENITE E SEGUITEMI
Quale sarebbe, allora, questa rotta, questa sostanziale determinazione che non si è piegata a nessuna circostanza o vento contrario e che lo avrebbe accompagnato per tutta la vita?
Io direi che è la sua adesione incondizionata a Gesù di Nazareth, semplicemente per trasformare nel centro della sua vita l'annuncio dello stesso Gesù: il Regno di Dio.
Pedro non voleva proporre nulla di nuovo, solo guardare al Vangelo e seguire colui che lo aveva chiamato: Vieni e seguimi. Il Vangelo come cammino, come metodo e come meta. Gesù di Nazareth, fratello e maestro, fondamento, ragione d'essere e norma della sua vita. Possiamo ascoltarlo nelle parole dello stesso Pedro: «Come lasciarti essere solo Te stesso / senza ridurti, senza manipolarti? / Come, credendo in Te, non proclamarti / uguale, maggiore, migliore del cristianesimo? / Tu che mieti pericoli e dubbi, / Tu che sconfiggi tutti i poteri, / la Tua carne e la Tua verità in croce, nude, / contraddizione e pace, sei colui che sei! / Gesù di Nazareth, figlio e fratello, vivente in Dio e pane nelle nostre mani, /cammino e compagno di strada, / Liberatore totale delle nostre vite, che vieni, insieme al mare, con l'alba, le braci e piaghe accese» (“Gesù di Nazareth”).
Stiamo toccando la profondità, credo, di ciò che guidava realmente la vita di questo profeta del Mato Grosso: Gesù di Nazareth. Le sue cause sarebbero state le cause della sua vita e tutto sarebbe passato per il suo cuore e le sue mani, per la sua azione e per la sua parola poetica e profetica.
Casaldáliga, dal suo arrivo in Brasile, rimase in contatto con centinaia e centinaia di amici della Spagna e di altri luoghi, ai quali faceva giungere le sue lettere periodiche. Leggerle significava restare uniti a lui e farsi contagiare dal suo spirito.
E, se necessario, c’erano i suoi gesti, il suo comportamento leale, come quando decise di non compiere la visita ad limina a Roma, prescritta ai vescovi ogni cinque anni, perché tali visite, diceva, servono a ben poco: tutto si riduce al protocollo e a cerimoniose udienze e neppure si riesce a informare il papa e inoltre “io sono povero e i poveri non viaggiano”.
O come quando, dopo aver percorso per tre anni tutta la sua prelatura – un'area di oltre 150mila kmq, pari a un terzo della Spagna – e aver visto, condiviso e analizzato il modo di vivere della sua gente, le condizioni di vita, l'arretratezza e la schiavitù in cui essa viveva sotto lo sfruttamento di spietati latifondisti, decise di rompere il silenzio e di lanciare il suo Documento-Denuncia all'opinione pubblica: “Una Chiesa dell'Amazzonia in conflitto con il latifondo e l'emarginazione sociale”.
Il nunzio gli aveva chiesto di non pubblicarlo, in quanto se ne sarebbe parlato all'estero e sarebbe rimasta compromessa la fama del Brasile. Latifondisti e generali, abituati ad avere cappelle nelle proprie tenute, gli avevano intimato di non occuparsi di certe questioni e di dedicarsi alle faccende spirituali. Casaldáliga, coerentemente, iniziò con forza a dimostrare che tra lui e questi “cristiani” non poteva esserci alleanza. Scrisse: «Smettevamo di essere amici dei grandi, e li sfidavamo. Nessuno sfruttatore o nessuno che traesse vantaggio dallo sfruttamento poteva, per esempio, diventare padrino di battesimo. Non accettavamo più passaggi sulle loro automobili, sfuggivamo alla loro compagnia, ai loro sorrisi: persino ai saluti, nei casi più eclatanti… Noi non potevamo celebrare l'Eucarestia all'ombra dei signori… Il Vangelo è per i ricchi, ma contro la loro ricchezza, i loro privilegi, la loro possibilità di sfruttare, di dominare e di escludere. Se tutte le settimane vado a casa di un ricco e non succede nulla, non dico niente, non scuoto quella casa, non scuoto quella coscienza, già mi sono venduto e ho negato la mia opzione per i poveri».
Le autorità si mossero perché a Roma non lo consacrassero vescovo (erano passati solo tre anni dal suo arrivo) e da più parti iniziarono a calunniarlo sui grandi giornali associandolo alla guerriglia. Vi furono perquisizioni, arresti, torture, uccisioni, accuse rivolte anche a vescovi della stessa Chiesa cattolica brasiliana e per cinque volte, sotto la dittatura del presidente Geisel, un decreto di espulsione contro di lui finì sulla scrivania pronto per la firma. Ma papa Paolo VI avvisò: «Toccare Pedro è toccare il papa».
Era il 1971, e Pedro era già riuscito a infastidire i più alti poteri - finanziari e politici - del Brasile. Un vescovo, che non voleva neppure esserlo, che aveva constatato le cause della prostrazione e della sofferenza del popolo e le aveva denunciate con forza; un vescovo senza potere, senza mezzi economici, senza armi, senza nulla che potesse rappresentare una minaccia reale, aveva messo in scacco i grandi. Il suo potere era quello di Gesù, che egli seguiva, deciso a non tenere nascosto il suo Vangelo.
Era povero e libero; povero in maniera da non dover dipendere da nessuno e libero per poter dire la verità. E senza paura della morte.
Nulla di strano, pertanto, che immediatamente, nel 1971, un tale Vicente de Oliveira, al soldo della compagnia Bordón S.A, analfabeta, firmasse con la croce la seguente dichiarazione: «Il capataz Benedito Teodoro Soares, soprannominato “Boca Quente”, il 1° ottobre mi ha chiesto di uccidere p. Pedro, e per ucciderlo mi avrebbe dato 1.000 cruzeiros, un revolver 38 e un passaggio per qualunque destinazione. E, un'altra volta, il 5 ottobre, mi ha chiesto insistentemente di uccidere p. Pedro e mi ha detto che, se lo avessi fatto scoprire, mi avrebbe ucciso».
Queste pennellate bastano per contestualizzare e comprendere la personalità di Pedro. Il Vangelo non è neutrale ed è proprio perché non lo è che Gesù è finito sulla croce. Allora e adesso. Allora con il Sinedrio e il Pretorio e oggi con il neoliberismo e con le multinazionali.
Il progetto di Gesù è un progetto di liberazione, su cui poggia la verità fondamentale che Dio è Padre di tutti e che tutti gli esseri umani sono fratelli, e in cui la legge fondamentale non è l'egoismo ma l'amore, che rifiuta la disuguaglianza, l'ingiustizia, la discriminazione e l'avidità.
Gesù indica il cammino e le condizioni per comprendere chi sono coloro che fanno proprio il suo progetto, allineandosi o contrapponendosi ad esso. E, di fronte a questo, il cristianesimo storico, incarnato nella Chiesa, ha claudicato molte volte, diventando un potere e non un servizio, operando come fattore di alienazione e oppressione anziché di emancipazione e liberazione.
Tuttavia, diventa sempre più difficile mantenere questa ambiguità, questa doppia faccia, in nome di uno stesso Vangelo.
Come ha detto papa Francesco durante una messa a Cagliari a cui hanno partecipato migliaia e migliaia di persone: «Noi non vogliamo questo sistema economico globalizzato, che ci fa tanto male! Al centro ci deve essere l’uomo e la donna, come Dio vuole, e non il denaro!»; «il mondo è diventato idolatra di questo “dio-denaro”»; «e questo non è un problema (…) dell’Italia o di alcuni Paesi d’Europa, è la conseguenza di una scelta mondiale, di un sistema economico che porta a questa tragedia; un sistema economico che ha al centro un idolo, che si chiama denaro» (Cagliari, 22 settembre 2013).
Senza volerlo, mi vengono in mente le parole del grande critico del capitale, Karl Marx. Concordo con lui, in questo momento in cui il potere del capitale appare più trionfante che mai, nel definirlo un feticcio, un dio artificiale, un idolo. Il teologo Enrique Dussel, nel suo libro Le metafore teologiche di Marx, scrive: «Se un cristiano è capitalista; e se il capitale è la “bestia dell'Apocalisse”, cioè l'anti-dio; tale cristiano si trova di fatto in una contraddizione in termini».
Pedro Casaldáliga dice la stessa cosa con parole di grande efficacia: «Gesù ha detto apertamente che l'antidio è il denaro. In questo non c'è nulla di marxista, né di Teologia della Liberazione. È del Signore Gesù: figlio di Dio e di Maria di Nazareth. Realmente il denaro è il peccato, il diavolo, la morte. Il precapitalismo, il capitalismo e il neocolonialismo utilizzano le strutture di governo nel loro interesse. Si tratta di un camaleonte che sa adattarsi alle diverse circostanze. Abbiamo superato le dittature militari e anche gli imperi. Ora viviamo nel mercato, nel neoliberismo, nella democrazia. Lo specialista Chomsky afferma che il mondo è strutturato in due parti: una minoranza del 15% che ha diritto a vivere bene e tutto il resto. Non ci sono dubbi che il Terzo Mondo sia nel resto». E aggiunge: «Credo che il capitalismo sia intrinsecamente malvagio: perché è l'egoismo socialmente istituzionalizzato, l'idolatria pubblica del lucro, il riconoscimento ufficiale dello sfruttamento dell'essere umano da parte dell'essere umano, la schiavitù dell'interesse e la prosperità per pochi. Una cosa ho capito chiaramente con la vita: le destre sono reazionarie per natura, fanaticamente immobiliste quando si tratta di salvaguardare la propria posizione, compattamente interessate a quell'ordine che è il bene... della minoranza di sempre».
Concludo con alcune parole pronunciate da Pedro durante una delle Romerías della Caminada Latinoamericana:
«Forse questa sarà per me l'ultima Romería con i piedi sulla terra. L'altra sarà già contando le stelle nel seno del Padre. In tutti i modi, che sia l'ultima o la penultima, voglio dare alcuni consigli. Un fragile vecchio ha il diritto di dare consigli. San Paolo, prima e dopo tanti dogmi e indici e norme canoniche e dialoghi culturali, rivolge a quelle prime comunità un unico suggerimento: “Quello che vi chiedo è di non dimenticarvi dei poveri”. E io, esattamente come Paolo, chiedo a tutti e a tutte voi: non dimenticatevi dei poveri. Questa opzione è essenziale nel Vangelo, nella Chiesa di Gesù. E questi poveri si concretizzano nei popoli indigeni, nel popolo nero, nella donna emarginata, nei senza terra, nei prigionieri, nei deportati…, nei tanti figli e figlie di Dio a cui è impedito di vivere con dignità e con libertà. Vi chiedo anche di non dimenticarvi dei martiri. C'è chi, anche nella stessa Chiesa, pensa: “Ora basta parlare dei martiri”. Il giorno in cui smetteremo di parlare dei martiri dovremo chiudere il Nuovo Testamento, cancellare il volto di Gesù… E ancora una parola. C'è molta amarezza, c'è molta disillusione, c'è molta stanchezza… Questo è eresia! Questo è peccato! Noi siamo il popolo della speranza, il popolo della Pasqua. L'altro mondo possibile siamo noi! L'altra Chiesa possibile siamo noi! Dobbiamo tutti porci come obiettivo quello di vivere disturbando, agitando, militando. Come se ciascuno di noi fosse una cellula madre impegnata a generare vita, a provocare vita. La Chiesa della Liberazione è viva, risuscitata, perché è la Chiesa di Gesù. La Teologia della Liberazione, la spiritualità della liberazione, la liturgia della liberazione, la vita ecclesiale della liberazione non è qualcosa di superficiale, è qualcosa di molto profondo, dello stesso mistero pasquale, che è il mistero della vita di Gesù, che è il mistero delle nostre vite. Per tutti voi, per tutte voi, un abbraccio immenso, con grande affetto, con tanta tenerezza, con un grido di speranza, questo cantare “Viva la Speranza” che significhi dar ragione della nostra speranza. Possono toglierci tutto meno la fedele Speranza. Amen, Alleluia!».