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Memorie di Natale

L’avvento [di Giuseppe Pulina]

By sardegnasoprattutto / 21 dicembre 2015 / Culture / No Comments

Fino a pochi anni fa era frequente per i sassaresi trovare una vecchina con il fazzoletto nero avvolto sulla testa, rannicchiata sul bordo del marciapiede all’angolo fra le Poste Centrali e via Turritana. Vendeva gli sfizi di stagione, le lumache in estate e in autunno, anche quelle piccoline che da noi si chiamano giogga minudda, gli asparagi in primavera e le verdure selvatiche d’inverno.

Arrivava ogni mattina con il suo cesto e si metteva a offrire le sue cose: io l’avevo sempre conosciuta. I passanti si fermavano e le chiedevano due dozzine di lumaconi o due cespi di rughitta e lei, con mosse svelte a abili, avvolgeva la merce in un cartoccio, prendeva i soldi, per i quali normalmente non si accettava il resto, e li metteva nella tasca di stoffa davanti alla sua gonna lunga.

Un giorno del solstizio di inverno di diversi anni fa la vidi illuminata da un sole gelido d’inverno, china sul cestino che rassettava gli ultimi mazzetti di verdure e mi misi ad osservare il suo profilo aquilino, le rughe ricamate che contornavano il fazzoletto indossato alla zappadora con i lembi avvolti dietro la nuca, gli occhi vividi e le mani piegate dal freddo. Si muoveva ancora con la grazia e l’agilità delle contadine osservando il fiume di gente ubriaca dalla corsa agli acquisti di Natale che le passava accanto senza, quasi, vederla.

Mi avvicinai e, sedutole a fianco, le rivolsi la parola, in dialetto. “Come è la campagna?”. Mi guardò per un momento e poi rispose. “Come vuole Dio; queste notti di sereno hanno gelato tutto. Stamattina sono riuscita a malapena a raccogliere queste poche cicorie e doveva vedere, voshtè, era tutto bianco che scricchiolava sotto le scarpe. Ma io conosco un posto, proprio sotto Ruseddu, dove c’è sempre un pò di caldo e non ghiaccia e lì crescono bene le verdure, non si bruciano“.

Le ho chiesto cosa pensava della gente di adesso che non conosceva più neanche il colore della campagna, che quando è sereno di notte diventa candida e si copre di una nebbiolina fitta fitta da mettere l’umido nei capelli.

“Io ne ho visto di gente“, mi rispose,” e tutti mi chiedono se è cambiato da quando ero giovane io; no, non credo che sia cambiata solo la gente, è che è cambiato il mondo. La Pasqua di Natale era diversa, molto. La aspettavamo anche noi ragazze, e contavamo i giorni che ci mancavano alla novena mentre raccoglievamo le olive da terra. Era come un miracolo che sapevamo che sarebbe accaduto perchè la notte santa era la Nascita e Lui era povero, tanto che è stato partorito sulla paglia. Io me la immaginavo, la scena; andavo nella stalla della nostra casa dove c’era l’asino e mi sdraiavo sulla paglia per provare quello che aveva provato Lui, e quasi mi mettevo a piangere, perchè era più povero di noi, ma era il Re di tutto e non c’era bisogno di cose per essere ricchi, ma di pensieri buoni.

La novena poi era una festa grande. Faceva buio presto e si ritornava molto prima del tramonto, quei giorni, che c’era sempre da fare per preparare e da mettersi in ordine per andare in chiesa. Passavano le mie amiche a casa a prendermi e c’era anche l’occasione di vedere qualche giovane che ci interessava. Ci mettevamo nei banchi in parrocchia noi dalla nostra parte e gli uomini dalla loro, ma in modo che quelli da marito fossero abbastanza vicini per guardarci e sorriderci. Era come avere il caldo nel cuore, perchè di freddo ne avevamo tanto che non ci bastava il braciere per togliercelo da dosso.

La funzione era fatta di parole in latino che ripetevamo senza capirle ma che avevano un suono bello perchè il parroco ci diceva che quello era il modo di parlare a Dio. Alla fine della funzione i bambini correvano fuori e buttavano i petardi in mezzo alla gente che usciva dalla chiesa per spaventarla e per farsi minacciare, anche se quelle minacce erano benevole e loro che di solito prendevano le susse per piccole mancanze lo sapevano e ridevano e urlavano, felici.

La notte Santa, le dico, era la più bella, l’unica dell’anno che passavamo a vegliare fino a mezzanotte per andare alla messa. Cenavamo più tardi, ma attenti a lasciare il tempo giusto del digiuno per fare la comunione, con le salsicce fritte sul pane e il pezzo di maiale arrosto. No, l’agnello non c’era, era per i più ricchi, e poi un pezzo, qualche volta quando c’erano gli anni che le pecore avevano molti gemelli e i pastori ci regalavano un agnello per allevarlo, lo mangiavamo il giorno dopo.

Per anni ho guardato il cielo a mezzanotte per vedere la cometa e mi è sempre sembrato di trovare una stella più grande proprio vicino all’orizzonte quasi che mi indicasse la buona fortuna. La festa iniziava con le campane che suonavano e con gli spari dei fucili. Tutti festeggiavano l’arrivo di Gesù con rumore e ci abbracciavamo come liberati dalle angosce di tutti i giorni e andavamo verso la chiesa portando con noi una bottiglia di olio, o del pane o un pezzo di formaggio per i più poveri, perchè ce n’erano sempre di più poveri da non avere neanche da mangiare.

La messa era solenne, con la chiesa tutta illuminata ed il presepe che ci incantava dove era appena stato messo il bambino. Per noi ragazze era un mistero grande, perchè i bambini nascono brutti, ma Gesù era bello e sorrideva, come un Re. E fuori i ragazzi cantavano le gobbule di li tre Re, e chiedevano in cambio degli auguri uno scudo o una caramella. Per un momento la devozione si confondeva con l’abbondanza e ci dimenticavamo della fatica di vivere. Caro signore, ero felice a Natale, e questa mi sembra l’unica differenza con il Natale di adesso”.

La donna volse lo sguardo verso la gente che continuava a sciamare in un vocio concitato e frettoloso, me la indicò tirando su il mento e scosse la testa. Mi alzai e le chiesi di darmi un mazzetto di cicoria. Lei lo scelse con cura fra i pochi rimasti, trasse dalla tasca un nastro rosso, lo legò e me lo porse rifiutando i soldi. “Bona Pascha di Naddari, me signò,” mi disse con un sorriso dolce. Si aggiustò il fazzoletto e riprese ad aggiustare le erbe nella sua colbula consumata

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