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Divine Creature


DIVINE CREATURE

Le scritture giudeo-cristiane danno per certa l'impossibilità di vedere Dio. A Mosè, che chiedeva di contemplarne la gloria, l' Altissimo replicò: "Tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo" (Es 33, 20), e quando uno dei discepoli chiese a Gesù di mostrare loro il Padre, egli rispose: "Chi ha visto me, ha visto il Padre" (Gv 14, 9). Dio, cioè, o non si vede affatto o si vede con un altro aspetto, quello di Cristo, pure questo però sfuggente, come suggerisce ancora il Vangelo: "Signore, quando ti abbiamo visto affamato ?" chiedono quelli a cui un re dice: "Venite, benedetti del Padre mio" perché gli hanno dato da mangiare quando aveva bisogno (Mt 25, 24-37; 37, 34), rispondendo alla loro domanda con le parole: "In verità vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me" (25,40).

"Questi miei fratelli più piccoli". Ecco il senso della presente mostra, che rivisita grandi capolavori d'arte cristiana sostituendo ai personaggi immaginati dagli artisti, attori scelti tra i fratelli più piccoli di Cristo: donne, uomini e bambini portatori di disabilità. La duplice logica di queste sostituzioni è sempre biblica: da una parte, come Dio spiegò a Samuele, quando questi voleva ungere re d'Israele il primogenito di Iesse, bello e imponente: "non conta quel che vede l'uomo .... l'uomo vede l'apparenza, ma il Signore vede il cuore" (ISam 16,7); e d'altra parte la consapevolezza che "adesso noi vediamo in modo confuso, come in uno specchio" e "adesso conosco in modo imperfetto", mentre un giorno vedrò e conoscerò perfettamente (I Cor 13, 12). La prima affermazione, che cioè l'uomo vede solo in maniera superficiale, mentre Dio vede il cuore, viene avanzata nel racconto della elezione di Davide, il figlio più giovane di Iesse, per la dignità regale. E la seconda, sul modo imperfetto in cui vediamo e conosciamo per ora cose e persone, è parte dell'inno intessuto da san Paolo alla carità, "magnanima, benevola", che "tutto scusa, tutto spera, tutto sopporta" (ICor 13,4-: 4,7). Per Paolo è infatti la carità a schiarire la nostra vista e la nostra intelligenza, permettendoci di vedere non solo il riflesso della realtà ma la sua faccia autentica, e di conoscere Dio come noi stessi siamo da lui conosciuti (13,12).

E' significativo che quasi tutte le opere rivisitate nella mostra siano della corrente realistica del Seicento italiano, di Caravaggio e di artisti vicini a lui. La "rivoluzione" caravaggesca dell'arte, in effetti tentava qualcosa di analogo a quanto queste splendide riletture contemporanee realizzano: una valorizzazione della bellezza autentica delle persone, della sacralità del reale, ben diversa dall'idealismo di stampo platonico preferito dai committenti barocchi. Un critico del periodo, Giovanni Pietro Bellori (1613-1696) contrappone i due approcci, esaltando quella "idea del bello" che già maestri rinascimentali - quale Raffaello - avevano mutuata dall' arte greco-romana come unico stile adeguato al "decoro" richiesto dai soggetti sacri. Caravaggio e i suoi seguaci proposero invece un nuovo linguaggio in cui veicolare il messaggio cristiano, libero dall'estetismo dell'antico mondo classico. Pur con il superamento di tali dicotimie tra l'Ottocento e il Novecento, nell'ambito dell'arte sacra permane fino ad oggi una nostalgia di "perfezione" in contrasto col senso del Vangelo. Dio infatti non ha scelto ciò che il mondo considera bello, ma piuttosto "quello che è ignobile e disprezzato per il mondo, quello che è nulla, Dio lo ha scelto per ridurre al nulla le cose che sono, perché nessuno possa vantarsi di fronte a Dio" (ICor 1,28-29). Così questa mostra sostituisce all'idealismo dei filosofi l'imperfezione che Dio ha assunto in Cristo. E lo fa a Firenze, dove il realismo francescano di Arnolfo e di Giotto ha spodestato l'autorità delle icone orientali; lo fa al Duomo, dove l'ispirato verismo di Donatello ha aperto la strada al Rinascimento; lo fa al Museo dell'Opera, dove si conserva il capolavoro del Michelangelo vecchio, in cui non il trionfo dell'uomo ma la sua sconfitta diventa segno dell'amore divino.

Mons. Timothy Verdon

Direttore Museo dell'Opera del Duomo di Firenze

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